G. Soldato - 1955


EDGARDO ROSSARO. Poeta nella vita e nell’arte

Da una intervista a cura di G. Soldato per la “La Sesia” di Vercelli – 1955

La famiglia Rossaro è l’unica famiglia vercellese, credo, che abbia servito l’arte pittorica con l’opera di quasi tutti i suoi componenti.

Il padre, di cui sono state ricordate in breve, su queste colonne, la grande arte e l’esemplare esistenza, morì ottantunenne nel 1927. Dieci anni prima era caduto eroicamente combattendo Umberto Ravello, suo genero e suo allievo prediletto che aveva già raggiunto fama di eccellente pittore. Nel 1943 scomparve la figlia Irma, gentile e signorile figura d’artista che fu pittrice nobile e delicata; dedicandosi specialmente all’arte della miniatura, conseguì vivi successi in varie ed importanti mostre d’arte.

Edgardo, il figlio superstite, vive in operosa e serena vecchiezza nella sua bella villetta appartata di Rapallo, con la eletta e affettuosa compagna della sua esistenza. Edgardo fu allievo di suo padre: “Sebbene abbia frequentato le Accademie di Venezia, Torino e Firenze con Maestri quali Luigi Nono, Gilardi, Tavernier, Fattori – egli ha scritto – solo da mio padre ho imparato il mestiere, l’arte e, soprattutto, la dignità professionale. Tuttavia non ho seguito pedestremente i suoi insegnamenti; ho cercato di vedere tutto ed ho studiato con vera passione i grandi antichi, in particolare i miei conterranei: dal Macrino d’Alba, a Defendente De Ferrari, al Luino, al Ferrari; e i paesisti dell’800: dal Camino, al Pittara, al Fontanesi.”

Ha molto lavorato. Dal 1906, quando per la prima volta si è presentato all’Esposizione Internazionale di Roma, ad oggi ha partecipato a circa 180 esposizioni in Italia e all’estero, ha conseguito premi e vinto concorsi, è rappresentato in gallerie e raccolte pubbliche e private ed ha avuto spesso incarichi di direzione.

Sospese la sua attività per vestire volontariamente la divisa d’alpino nel maggio del 1915 e combattè prima nel Corpo dei volontari alpini del Cadore e poi nel 7° reggimento. Ma anche al fronte dipinse e mandò al Concorso di Roma riservato ai pittori combattenti, un quadro compiuto alla Croda Rossa a quasi 3000 metri di altezza. Di altri quadri inspirati alla guerra ricordo uno impressionante raffigurante il “Passo della Sentinella”, un altro: “Corvèe di muli”, e altri ancora.

Tempo fa mi diceva che da oltre vent’anni, da quando è nato tanto confusionismo e ciarlatanume artistico, non espose più, fatta eccezione per quattro pannelli esposti nel 1951 ad una mostra regionale di Vercelli.

Quanto lavoro e quanti quadri usciti dal suo studio. Ritratti e paesaggi e specialmente montagne, le Dolomiti, che egli ha sempre amato e riprodotto nei lunghi solitari colloqui con le eccelse cime. E quante difficoltà e ostacoli superati nella sua vita d’artista. L’incomprensione e la malvagità di certi uomini non lo fermano. E neppure lo scoraggiano la perdita di tele e di studi raccolti in una casetta a Pieve di Cadore barbaramente saccheggiata e la distruzione quasi completa di un lavoro di dieci anni per lo scoppio di una polveriera a Firenze.

In una presentazione ad una mostra di Bergamo del 1941 sono raccolti brani di giudizi critici: da Ezio d’Errico a Edoardo Mottini, da Alberto Neppi a Luigi Granturco, da Guillaume Janneau a Filippo De Pisis. Desidero riprodurne due: Filippo De Pisis, pittore assai diverso da Rossaro nella visione artistica, ha scritto: …“Non oserei chiamare classici, nel più spicciolo senso della parola, Edgardo Rossaro e Giovanni Roi, ma essi certo lo sono nelle opere migliori esposte, il primo nell’autoritratto.” Edoardo Mottini, che fu insigne critico e storico dell’arte, ha scritto: “La sua pittura sembra che debba essere un piacere per lui quando la produce, come lo è per noi quando la contempliamo: facile, tersa, sonora senza riempitivi, esatta e verace.” … “Noi ammiriamo il pittore pieno di gusto e di pensiero, che ha fatto cose belle e più ancora saprà farne, e in pari tempo onoriamo l’uomo concio della sacra essenza dell’arte, che sfugge per innata nobiltà dalle vie facili, tumultuose e volgari, e continua il suo cammino verso l’Ideale sul sentiero deserto e arduo.” A Genova, qualche anno fa, gli venne conferita la medaglia d’oro di benemerenza artistica dalla Confederazione Italiana Professionisti e Artisti in una solenne Assemblea onorata dalle massime Autorità cittadine e dal Presidente Confederale.

Il Mottini ha mirato giusto affermando che Edgardo “rifugge per innata nobiltà dalle vie facili, tumultuose e volgari.” Perché non è – credo – sufficiente che l’artista sia un virtuoso e possegga una determinata esperienza acquisita con l’osservazione e l’esercizio dell’arte. Occorre che l’artista, nel suo raccoglimento, tenda continuamente lo spirito, soffra il dolce tormento – che noi uomini comuni non possiamo capire – di superare sé stesso per comporre in modo sempre nuovo con la magia dei colori, con il ritmo del canto, le forme appena rivelate, le sillabe informi che urgono a sommo dell’animo. Ed è questo desiderio, quest’ansia, che hanno dato alle opere di Edgardo un singolare e personale suggello di nobiltà.

Forse anche perché egli non è solo un pittore. In riunioni tenute in diverse città declamò, guidato dalla sua sensibilità, con mirabile arte, poesie di poeti antichi e moderni. Scrisse un libro: “La mia guerra gioconda” edito dall’Associazione Nazionale Alpini. Scrisse brani di prosa poetica di cui alcuni apparsi anche su “La Sesia”, ed ora sta scrivendo le memorie della sua vita che saranno certo di grande interesse.

Sono stato a trovarlo pochi giorni fa. Quando scendo a Rapallo mi assale la nostalgia quale era pochi anni prima della guerra: raccolta, gentile, soffusa, di raffinata bellezza, conservava un poco dell’antico borgo marittimo. Si vedeva ancora la verde collina dietro le case. Ora gli uomini, con le colate di cemento, hanno rovinato tutto. Ha ragione Piero Ottone quando, nella sua inchiesta apparsa sul “Corriere della Sera”, ha detto che ormai Rapallo è un borgo di città industriale.

E nostalgia dei colloqui d’allora con Edgardo ed Ezra Pound, quando il poeta illuminava avvenimenti e persone con la sua sconfinata cultura. Per fortuna la villetta di Edgardo è in alto, lontana dai rumori, anche se i casoni sono giunti quasi a lambirla. Edgardo è ora convalescente di un fastidioso malanno ed è tuttora prigioniero nella sua casa. Ma si aggira sereno e vivace nello studio. Gli ho chiesto se rispondeva a verità quanto è stato affermato su “La Sesia”, in una lettera al Direttore, d’essere cioè stato avvisato del deterioramento dell’affresco di suo padre al Cimitero di Biliemme ed invitato a restaurarlo. Mi disse invece di aver provato un vero dolore perché i distruttori del dipinto avevano l’assoluto dovere di avvisarlo; oltre ad essere il figlio del pittore che aveva eseguito l’affresco, era nipote in primo grado del defunto Caresana, proprietario della tomba. Invece non ebbe notizia alcuna del deterioramento. “Se, per qualunque ragione, l’affresco si fosse deteriorato in modo grave, – soggiunse – e se fossi stato avvertito, avrei potuto “strapparlo”, trasportarlo e restaurarlo.” Gli ho chiesto anche se gli affreschi sono facilmente deteriorabili. Mi ha risposto che l’affresco è teoricamente una pittura indistruttibile. Quando è fatto con buona tecnica e cioè con acqua pura su calce fresca, l’affresco fa parte dello stesso intonaco e lo rende solido: si distrugge solo con la distruzione dell’intonaco stesso. Il salnitro si forma quando l’umidità è entrata dietro l’intonaco ed è formato anche dai mattoni vetrificati. “Non credo – ha concluso – che agenti atmosferici e nemmeno il cosiddetto “smog” possano distruggere l’intonaco, altrimenti a Milano, per esempio, le case dovrebbero essere tutte scalcinate.”

Ho guardato i quadri che ha ancora nello studio. Qualcuno lo conoscevo, come il busto del Cristo con la testa bellissima, sullo sfondo di un alone con i colori sfumati dietro al capo biondo, con la fisionomia severa e dolce ad un tempo. Mi disse che lo dipinse quasi per una improvvisa visione e certo c’è nel quadro come un’atmosfera singolarmente luminosa. Altri quadri assai belli di ispirazione religiosa: S. Rocco; “Mattutino” (due frati oranti, l’uno raccolto e l’altro con lo sguardo al cielo, come rapito); una delicata Annunciazione, un Presepio, un suggestivo S. Andrea con la neve e ritratti e quadri di montagna, specie delle Dolomiti, nei quali ha trasfuso il suo amore per quei naturali grattacieli. Ha messo da parte nove quadri delle Dolomiti che saranno inviati a Belluno per una vendita all’asta a favore delle famiglie dei commilitoni Volontari alpini del Cadore, morti nel disastro del Vajont. “Una volta trattavo molto il ritratto – mi diceva – ma dal momento che quelli che potrebbero commissionarli si accontentano di fotografie artistiche, ho dipinto molti paesaggi e montagne. Se fossi più giovane e più in forza mi sarebbe piaciuto fare una mostra a Vercelli ma temo che sia troppo tardi.” Gli chiesi ancora quale era, in definitiva, il suo “credo” artistico. Egli mi porse un quadernetto e mi disse sorridendo: “Qui troverai la risposta.”

A casa ho letto attentamente le pagine coperte dalla sua scrittura chiara e regolare, che pare anch’essa disegnata. Purtroppo non posso riportarne molti brani. Penso che il suo “credo” sia contenuto in queste parole:

“La pittura consiste solamente nel potere che hanno sullo spirito le armonie delle linee e dei colori; e poiché l’Arte raggiunge la sua completa esplicazione nei movimenti che esercita nell’anima, l’identità tra la Musica e la Pittura è perfetta; anzi affermo che Pittura e Musica sono la stessa Arte, che si vale di mezzi materiali diversi e opera su sensi diversi per creare quella commozione che è il suo fine.”

Ed ecco altri pensieri:

“…Se il Pittore è anche Poeta, Mistico, Filosofo, Dotto, sarà tanto meglio per l’Arte sua e per la gioia di coloro che la contempleranno e saranno capaci di intenderla.” … “L’Artista, dotato di tanti doni meravigliosi, li trasfonde inconsciamente nel quadro, qualunque ne sia il soggetto e allora emana dalla pittura quel fascino che non deriva soltanto dalla bravura pittorica, dalla bellezza delle linee, dall’armonia dei colori o dalla cosa rappresentata, ma deriva dalla divina anima stessa dell’uomo, che dà alle opere dei Primitivi, alle Madonne a ai Cristi superumani dell’Angelico, di Matteo di Giovanni, di Giotto, dello stesso ingenuo Cimabue una potenza suggestiva che manca a quelli dipinti con tanta bravura e sapienza pittorica e anatomica dai Maestri posteriori che non ebbero la loro fede.”

… “Vi sono tre cose assai difficili ad intendere, anzi quattro, che pochi raggiungeranno. Sono: Vedere – Ascoltare – Leggere – Pregare. Tutte sono elevazione. Occorrono a raggiungerle: Astrazione – Concentrazione – Animo semplice.”

… “Possa ogni uomo piantare la sua croce dove gli piace. Con la mia croce ma sempre più in alto. Più in alto, oltre il mio dolore.”

G. Soldato