Prof. Torresi - 2003


EDGARDO ROSSARO: Dipingere nella luce.

Pittore a lungo sottovalutato dalla critica del secolo appena trascorso per il suo attaccamento alla Tradizione, boicottato dai colleghi futuristi prima e novecentisti poi, Edgardo Rossaro ha solo da qualche anno recuperato e riconquistato un suo ruolo nel panorama artistico nazionale. A favorirne la riscoperta ha contribuito la mostra curata da Lucio Scardino nel 1988 per l’Amministrazione Comunale di Bondeno, in una provincia, quella di Ferrara, a cui l’artista era legato da vari rapporti di amicizia e di committenze.

In seguito Rossaro è stato inserito in mostre sulla pittura piemontese e in repertori sull’arte ligure, mentre il suo unico libro (dedicato alla prima guerra mondiale) è stato ripubblicato da un importante editore come Mursia nel 1999.

A quel primo lavoro bondenese di ricognizione storico-critica ha fatto seguito, nei mesi di ottobre e novembre 2003, un approfondimento con nuovi apporti soprattutto sulla vena di paesaggista.

Singolare è comunque l’angolazione dalla quale parte questa nuova fase di rivisitazione, legata all’importantissimo soggiorno fiorentino dell’artista. Sì, perché la formazione artistica del pittore vercellese si completò nella città medicea, la quale proprio in virtù del suo attaccamento alla grande tradizione figurativa del Quattro-Cinquecento, seppe mantenere alto il gusto per la pittura tradizionalmente intesa e di conseguenza apprezzare e far lievitare l’operato di quegli artisti che ad essa si ispiravano.

Per integrare la nota biografica che segue ci si è basati su alcune recensioni apparse soprattutto su periodici fiorentini, a mostre alle quali Rossaro aveva partecipato, nonché su notizie e testimonianze fornite da Goffredo Scotti (nipote ed erede dell’artista), Mary de Rachewitz (figlia di Ezra Pound), Paola Pallottino (direttrice del Museo dell’Illustrazione di Ferrara), Cinzia Lacchia (conservatore del Museo Borgogna di Vercelli), Mario Gallotta del “Gruppo Alpini di Ferrara”.

Nel nome della Tradizione si muove l’estro creativo di Edgardo, propenso più ad interpretare i segni del reale che a reinventarlo nel nome dell’astrazione o della sintesi formale. Schiavo amoroso della Realtà, di essa egli cercò di catturare la luce, quella luminosità che dà vita alla pittura, oltre che agli esseri umani. Ma, per uno strano gioco dell’arte, anche l’osservazione e la resa del dato naturale in pittura diventa artificio, in cui il mestiere del pittore finisce per prendere il sopravvento sulla realtà stessa.

E così, quella di Rossaro è più una luce dello spirito, della sua anima che aspira alla luminosità suprema della vita stessa che non quella che gli scienziati hanno tentato di imbrigliare in formule analogiche di valore scientifico; e qui nasce spontaneo il confronto con i principi della pittura macchiaiola prima e divisionista poi. Ma Rossaro sembra superarli entrambi, nella sua foga di impadronirsi di una sua tecnica personale, legata soprattutto all’encausto, anziché adagiarsi sulle conquiste dell’uno o dell’altro movimento artistico. Perché quelli del Nostro non sono dipinti né macchiaioli né divisionisti. Sono assimilabili piuttosto, per impostazione e sintonia di gusto, a certa pittura toscana degli anni Venti e Trenta, nella quale la lezione dei grandi Macchiaioli (Markò, Fattori, Lega, Cecioni, Abbati) si riveste di nuovi panni e di colori con tavolozza di moderna produzione, ed elegge a novelli punti di riferimento, maestri quali Nomellini, Chini, Ghiglia, Lloyd, i Gioli, i Tommasi, seppure accusati talvolta di essere pittori passatisti.

Come loro, Edgardo era attratto dal magico e irraggiungibile percuoter leonardesco della luce su oggetti e figure, che dall’aria luminescente sono circondati. Nelle lettere che Edgardo scriveva nel corso del Ventennio compaiono poi apprezzamenti per anziani artisti “simbolisti” quali De Carolis, Tito, Sartorio, mentre si polemizza costantemente contro i Novecentisti (compresi De Chirico e De Pisis), Carrà è definito “famigerato”, Milano “una filibusta”, la Sarfatti è giudicata ostile, Funi e Tosi assai criticati.

Solitario e polemico, l’artista piemontese continua a dipingere paesaggi, non solo ferraresi, immersi in una poeticissima luce.

Gli esempi in tal senso non mancano mai nella vasta produzione del nostro pittore profondamente innamorato della luce. Disegno e colore in definitiva hanno bisogno l’uno dell’altro: e ciò si evidenzia soprattutto nei ritratti, veridici testimoni di questo connubio tra cuore e sentimento, tra forma e colore, tra l’essere e l’apparire.

L’artificio pittorico di Rossaro è quindi il risultato di una profonda meditazione sul dato naturale, soffusa di quella lieve malinconia insita nel suo carattere.

E’ da sottolineare l’amore del Nostro per l’arte quattrocentesca, pre-raffaellita. Giovane battagliero, Edgardo era un pittore e filosofo che girovagava per l’Italia senza seguire una scuola precisa, ma attento indagatore di anime. L’innato senso decorativo che lo padroneggia si evidenzia nei ritratti; tramite la tenacia del lavoro e attraverso un logorante lavorio di ripetizione e di affinamento egli ha conquistato una propria “formula” pittorica. Ama le mezze luci dell’imbrunire, quando la malinconia è profonda: quest’ultima pervade i suoi giardini, in cui spiccano alti cipressi nereggianti, ma altresì i notturni, con i violenti contrasti tra ombre e luci.

La montagna (del Cadore, soprattutto) costituisce per l’Autore il poema immenso per natura, è l’inarrivabile tesoro che non potrà essere discoperto né posseduto per intero da nessuno: “chiudere un monte in un quadro è lodare l’arcobaleno in un pezzo di vetro”, scriveva Massaro.

Estratto dal volume “Paesaggi ferraresi di Edgardo Rossaro dal 1919 al 1943”

a cura di Lucio Scardino e Antonio Torresi edito da Liberty House

in occasione della retrospettiva organizzata a Bondeno (FE) nell’ottobre 2003