Autobiografia e altri scritti



I N D I C E

Indice – pagina I

Prefazione di Lucio Scardino – pagina II

Introduzione del Curatore – pagina VI

Autobiografia – pagina 1

1^ appendice: I miei pensieri sulla pittura – pagina 111

2^ appendice: Brani autobiografici – pagina 125

3^ appendice: Prose liriche – pagina 143

4^ appendice: Favolette morali e riflessioni– pagina 173


PREFAZIONE

Lo scorso anno, nel redigere gli “appunti biografici” che dovevano corredare il catalogo della mostra sui paesaggi ferraresi di Edgardo Rossaro, allestita a cura del Comune di Bondeno, Antonio P. Torresi lamentava le difficoltà incontrate nella stesura del profilo, "mancandoci, purtroppo, elementi documentari importanti del pittore, quali lettere giovanili o appunti autobiografici".

Forse pungolato da questa osservazione il professor Goffredo Scotti, illustre primario medico dell’ospedale civile di Viareggio, nonagenario nipote ed unico erede dell'artista, ha cercato nell'archivio familiare documenti in tal senso e – con grande sorpresa – ha rintracciato in una cassa polverosa un manoscritto intitolato "Autobiografia fino al 1924": un quadernone dal classico formato di cm 30x21, con fogli quadrettati, da computisteria.

Il testo dovrebbe datarsi attorno al 1957, poiché il pittore esordisce con l'osservazione che egli allora "navigava oltre i settantacinque anni", ma la narrazione degli eventi si arresta curiosamente (anche se essa ha l’aspetto di un’opera compiuta) al 1924, all'indomani del matrimonio con Giulia Francini Bruni.

L'artista rievoca così in questo testo "i suoi primi quarant'anni", tralasciando il successivo soggiorno nella Milano dove imperavano novecentisti come Sironi e Funi, con i quali si scontrò spesso (non solo verbalmente) e, soprattutto, il periodo vissuto a Rapallo.

Approdato nel Golfo del Tigullio forse su consiglio di un grande amico, lo scultore Arrigo Minerbi, l’artista vi abitò lungamente, costruendo una casa a Punta Seglio.

A Rapallo frequentò il geniale poeta statunitense Eszra Pound (che gli presentò persino una mostra presso la galleria "Polymnia") e lo scrittore Sem Benelli, bazzicò il salotto culturale della Benois, dipinse molti paesaggi e ritratti e si dedicò all'attività letteraria.

Del 1939 è La mia guerra gioconda, ispirato all'esperienza di soldato-alpino nel primo conflitto bellico, recentemente riedito da Mursia e, secondo quanto ricorda il nipote, collaborò quale pubblicista alla rivista "Perseo".

Poi, nella casa-studio di Punta Seglio egli stese la sua autobiografia. Si trattava di un "genere" allora in voga anche fra i pittori: famosa è rimasta quella di Carlo Carrà (1943), mentre è successivo il sapido libro di Giorgio De Chirico intitolato Memorie della mia vita.

Ma negli anni subito dopo la seconda guerra mondiale in genere le "vite d'artista" erano destinate a restare inedite. Redatte da artisti un tempo famosi e in un qualche modo "sopravvissuti" (anche per le mutate condizioni politiche e sociali), spesso esse erano permeate di considerazioni ideologicamente pericolose – per così dire – e di toni dolenti o polemici, che se permettevano agli anziani autori di sfogarsi perlomeno sulla carta non consigliavano la loro diffusione a mezzo stampa.

Qualche esempio di questa memorialistica postuma: Vita d'artista di Arturo Martini, redatta attorno al 1945 e pubblicata nel 1988 in un catalogo d'una retrospettiva ad Oderzo del geniale illustratore e pittore proto-surrealista; Il romanzo di una vita di Leonardo Dudreville, datato 1946 e stampato nel 1994; Mein kampf um die kunst, autobiografia del pittore trentino Francesco Ferdinando Rizzi, apparsa integralmente solo nel 1998; i ricordi di Galileo Chini, titolati Il tarlo polverizza anche la quercia, dettati alla moglie negli anni Cinquanta e pubblicati nel 1999; l'autobiografia del poliedrico ferrarese Ferruccio Luppis, scoperta dal sottoscritto e suddivisa a mo' di trittico (redatta tra il 1947 e il 1954, è stata integralmente edita nel 1990 col titolo La diga). Per non parlar poi dei numerosi testi inediti di Filippo de Pisis, sensuali prose che spesso appaiono come un'autobiografia "mascherata", curati dopo la morte (1956) dalla nipote Bona assieme allo scrittore Sandro Zanotto.

Molti sono comunque i pittori-letterati del Novecento italiano: Annigoni, Bartolini, Bucci, Conti, Depero, De Witt, Guidi, Maccari, Melli, Messina, Rosai, Sacchetti, Sartorio, Savinio, Sepo, Severini, Soffici, Viani, Yambo e tanti altri, sino a Baj e Tadini. Essi furono autori di prose, poesie, romanzi, commedie, biografie, oltre che di testi teorici o manualistici, alla Previati.

Quello che può forse avvicinarsi di più al caso di Rossaro è l'esempio del celebre pittore Massimo Campigli, il quale scrisse un'autobiografia, Nuovi scrupoli, ma non la diede alle stampe: la scoprì nel 1989, a 18 anni dalla morte il figlio Nicola, il quale si "trovò tra le mani un plico di fogli legati con un cordoncino. Un centinaio e più di fogli in carta velina, dattiloscritti senza interlineatura, così scoloriti da essere ormai quasi illeggibili... allora Nicola stirò i fogli uno per uno con un ferro caldo, si munì di una fotocopiatrice portatile e si accinse con pazienza a fotocopiare i fogli. In quel modo l'inchiostro si faceva più scuro e rendeva possibile la lettura".

Così si legge nella prefazione di Liana Bortolon al testo di Campigli, finalmente pubblicato nel 1995.

Lo stesso può dirsi sia avvenuto con l'autobiografia di Rossaro, scoperta qualche mese fa dal nipote, da lui trascritta in collaborazione con la figlia ed il genero e commentata con qualche postilla, pur con non poche difficoltà: il manoscritto risulta ad evidenza una prima stesura, in cui compaiono incongruenze e mancanze (spazi bianchi al posto dei nomi che Edgardo aveva dimenticato).

A prescindere dalle pagine iniziali, in cui l'autore confessa un'inclinazione adolescenziale per la vita da Seminario, il racconto, interessante e piacevole nella narrazione, prende corpo allorchè Edgardo manifesta la vocazione per la pittura: egli è figlio d'arte, figlio di Ferdinando, maestro di numerosi pittori e scultori di Vercelli, città dove egli vede la luce il 6 marzo 1882. Ma Rossaro non vuol fermarsi nella cittadina piemontese, non vuol "essere profeta in patria" come il padre: e quindi decide di studiare all'Accademia di Belle Arti di Venezia, di perfezionarsi in quella Albertina di Torino, per stabilirsi infine a Firenze.

Nell'autobiografia egli quindi evoca incontri con maestri ed altri artisti, gustosi anche se rapidi: quasi tutti gli parlano in dialetto (in veneziano Milesi, in piemontese Carena, in lombardo Carcano, in fiorentino lo Zocchi) e gli forniscono preziosi nozioni tecniche (e Pellizza da Volpedo gli magnifica poi il divisionismo di Segantini).

Si registra qualche errore cronologico (la memoria può giocare qualche brutto scherzo!), specie nel ricostruire le mostre di Fattori, ma altresì una grande vivacità nel rendere personaggi, ambienti, atmosfere della Venezia più pittoresca come della Torino cara al duo Oxilia-Camasio di "Addio, giovinezza!", ma soprattutto di Firenze, città che diventa la sua città d'elezione. Qui frequenta scultori come Griselli, Passani, Ciampi e Focacci, assiste agli scherzi goliardici di Andreotti e Sacchetti, recita quale fine dicitore le poesie di Umberto Saba, si interessa di teosofia ed occultismo, sulla scia di Giovanni Papini.

Vi si dedica inoltre alla letteratura, componendo prose liriche, che poi legge in vari salotti fiorentini, ma rifiutando di pubblicarle sulla "Nuova antologia". Se ne pentirà, giungendo a scrivere che esse "dormirono sempre in un cassetto e finiranno forse sul fuoco dopo il mio trapasso": riscoperte oggi dal nipote Goffredo, finalmente hanno visto la luce a quasi un secolo dalla loro stesura, compresa l'allora apprezzatissima Morte di un saggio.

Ma poi Edgardo diventa il leader della Società di Belle Arti (ossia, il segretario), organizzando mostre che volevano contrapporsi all'egemonia "massonica" del potente scultore Domenico Trentacoste o alle astruserie del Futurismo.

Indimenticabile, in tal senso, è la narrazione dell'incontro con il grande Medardo Rosso, che parla in un maccheronico italo-francese, sbatacchia senza garbo le proprie sculture in cera che deve presentare a Firenze nella primavera del 1911, discute dell'esposizione con luce a radenza.

Maestro d'allestimenti era invece Galileo Chini, il poliedrico artista fiorentino, di cui Rossaro evoca il generoso aiuto datogli nel sistemare un'ampia mostra internazionale di grafica (esclamando "...noe, noe, 'un va bene pe' niente").

Allora Rossaro dipingeva soggetti "un poco boeckliniani", come confessa egli stesso (soprattutto notturni), ma non disdegna di eseguire quadri "in istile" per antiquari fraudolenti, ritratti per la borghesia anglo-becera, oppure di restaurare "vecchi babacci".

Quindi conosce il Cadore, grazie agli amici Palatini: dapprima tiene nel Bellunese una dizione di versi e poi ne riprende gli angoli (innevati e non) in numerose occasioni: le Dolomiti, il Piave, l'Ampezzano diventeranno difatti alcuni fra i suoi temi prediletti, specie dopo la tragica esperienza bellica, lì vissuta.

La prima parte dell'autobiografia si arresta allo scoppio della prima guerra mondiale, quando Rossaro abbandona Firenze per arruolarsi volontario nel reparto "Alpini del Cadore".

Nel testo egli ignora deliberatamente il periodo bellico, poiché già descritto ne La mia guerra gioconda: una eco dello spirito ironico che lo permea si rinviene nel sapido capitoletto dedicato alle traversie militaresche del poeta Saba, deliziosamente "imbranato".

Rientrato a Firenze nel 1919, torna a dipingere (ma con una nuova infatuazione per i mosaici ravennati), ad esporre e a frequentare i colleghi sopravvissuti, quali Sarri e Focardi.

Tramite i soliti amici Palatini aveva conosciuto Ferdinando Grandi, industriale di Bondeno, paese del Ferrarese, il quale aveva sposato Maria Palatini.

E così a partire dal 1919 (e perlomeno sino al 1943) egli passò lunghi soggiorni ospite di Grandi, che divenne il suo principale mecenate: nella seconda parte delle memorie assumono così notevole importanza il milieu di Ferrara e della sua provincia.

Pur tutt'altro che esente dalle tensioni politico-sociali che contraddistinguevano la Firenze post-bellica (significativo l'episodio del mutilato assalito da alcuni teppisti "bolscevichi" in piazza Sangallo e difeso inutilmente dal pittore), Edgardo inizia ad amare l'ambiente ferrarese, anche se gli operai in rivolta vi bruciavano magazzini di canapa, pagliai e granai.

Ma l'artista non si spaventa: una volta, smette di dipingere una veduta bondenese e organizza un improvvisato comizio per dissuadere i "rossi" facinorosi. In un'altra occasione trasporta i suoi quadri da Firenze a Ferrara su una macchina aperta e si fa coraggiosamente largo fra la folla in tumulto, spacciandosi per un attivista rivoluzionario.

Lo spavaldo Rossaro cita quindi l'eccidio del Castello Estense del 20 dicembre 1920, data-spartiacque nella storia del fascismo ferrarese e soprattutto ricorda gli amici che si raccoglievano nel salotto di Grandi: il medico Enzo Bottoni, il critico Donato Zaccarini, Arrigo Minerbi. Conosce lo scultore ebreo – destinato a diventare uno dei suoi più stretti sodali – alla Prima Esposizione d'Arte Ferrarese, nel Palazzo Arcivescovile, inaugurata nell'aprile 1920 dal tronfio Ugo Ojetti e qui gustosamente rievocata.

Viene anche descritto, in un pittoresco quadro di genere, l'ambiente di Comacchio, visto argutamente quale regno delle cimici e di ragazzetti simili agli scugnizzi: e tornandovi di recente Rossaro lo trova sì lindo ma "modernizzato e banalizzato". Assiste altresì alla cerimonia di ridedicazione di Magnavacca, divenuto Porto Garibaldi.

Ma numerosi altri personaggi trovano spazio nelle pagine sugli anni Venti: de Pisis, Italo Balbo, Arturo Martini, Pio Semeghini (entrambi artisti, questi ultimi, con i quali polemizza durante le mostre), la poetessa Annie Vivanti, il pittore fanese Emilio Mantelli, l'illustratore Amos Nattini, l'attore piemontese Annibale Betrone, Carlo Vicenzi, direttore dei Musei civici di Milano, l'industriale Guido Ucelli, alcuni musicisti.

E vari eventi, fra pubblico e privato: l'attentato anarchico del teatro milanese "Diana", il concorso di Figura all’Accademia di Ravenna del settembre 1920 (dove i giurati De Carolis e Buffa prescelsero Protti), l’importante "Fiorentina Primaverile" del 1922, il litigio fra Minerbi e Wildt e le polemiche fra Minerbi e Andreotti, la Marcia su Roma, il doppio matrimonio con Giulia (a Firenze e a Fiesole), il viaggio di nozze nell’amatissimo Cadore.

Poi la narrazione s'interrompe bruscamente e rimane la curiosità di come Rossaro avrebbe liquidato le "depravazioni" dell'aborrito stile Novecento: un assaggio è nelle righe dedicate a Mimì Buzzacchi Quilici, che fu sua allieva per qualche mese. Rossaro, a proposito della produzione novecentista della pittrice mantovano-ferrarese rileva: "Peccato che il modernismo, abbracciato donnescamente come la moda, l'abbia ora ridotta a una parodista della pittura e del bulino".

Assieme alla mutila autobiografia, il professor Scotti ha ritrovato altri brani a carattere letterario, qui riportati in quattro appendici, con il medesimo atteggiamento rapsodico che si ritrova, ad esempio, negli Scritti d'arte (1890-1936) del pittore Cesare Laurenti, curati per questa stessa casa editrice nel 1990 dalla nipote, Anna Laurenti.

Anzitutto, sono stati recuperati dieci "pensieri sulla pittura", scritti nel 1916 durante le pause dei combattimenti e dedicati ad un'altra sua allieva: l'impostazione mescola infatti la didattica alla filosofia dell'arte, come andava allora di moda, sulla scia di Previati.

Vi si ritrovano tematiche trattate anche nell'autobiografia, a cominciare dalle considerazioni sulla scultura "pittorica" di Medardo Rosso e che lì non aveva potuto sviluppare, per non appesantire il testo: questi "pensieri" diventano così complementari alla Autobiografia fino al 1924. I "pensieri sulla pittura" sono gli unici dattiloscritti (e su carta velina), evidentemente ricopiati al rientro a casa, conclusa l’esperienza bellica.

Seguono quindi altri brani autobiografici, trasfigurati come componimenti poetici o quali prose dense di compiacimenti lirici: manoscritti datati tra il 1908 e il 1920, essi rivelano l'adesione all'idealismo estetizzante tipico dell'ambiente fiorentino, con echi preraffaelliti e dannunziani e financo l'influsso degli amici poeti, quali Saba e Palatini.

Prose liriche sono i nove testi della terza appendice, a cominciare dalla sunnominata Morte di un saggio. Scritte tra il 1907 e il 1911, le prose sono di diseguale livello stilistico ma impregnate di fervido immaginismo, in sintonia, ancora una volta, con il clima dell’ambiente toscano, che ondeggiava tra Ruskin e Decadentismo, apprezzava Papini e Prezzolini, stampava "Il Marzocco", "Il Leonardo" e i primi testi poetici – con illustrazioni di De Carolis – del ferrarese Corrado Govoni (altro autore che presenta tangenze con il Rossaro scrittore).

Le "favolette morali" dell'ultima appendice sono un aggiornamento di Esopo e nel contempo una satirica interpretazione di taluni vezzi dell'Italietta giolittiana, così come le riflessioni finali, che però sembrano di stesura più tarda, tanto che vi appaiono citati (ovviamente, in negativo) l'arte astratta ed il Jazz e compare Pound, conosciuto soltanto a Rapallo.

Nella cittadina ligure, ormai isolato e sempre più incompreso, Rossaro prese a scrivere, forse nel 1957-58, l'interessante autobiografia che qui si propone: nel frattempo una troupe cinematografica diretta da Gianni Franciolini vi girava il film "Racconti d'estate", su soggetto di Moravia; un'amara riflessione sull'epoca del boom economico, sotto l'apparenza di un frivolo affresco balneare.

Ma ad Edgardo Rossaro, che passeggiava per Rapallo ancora vestito da alpino, sognava dipinti immersi nella luce, sperimentava encausti neo-quattrocenteschi e ricordava con nostalgia il “buon tempo che fu”, tutto ciò non interessava affatto...

Lucio Scardino

Ferrara, settembre 2004

INTRODUZIONE DEL CURATORE

RICORDANDO MIO ZIO EDGARDO

È stato scritto, non ricordo più da chi, che fra gli amici di un grande artista vi è sempre un traditore: colui che ne scriverà la biografia. Io non voglio essere quello. Perciò questa non sarà una vera biografia ma soltanto il ricordo scritto degli avvenimenti più caratteristici che la mia mente ha conservato in cinquant’anni di vita con mio zio.

Edgardo Rossaro non è unito a me da un legame di sangue; sono un nipote acquisito, figlio della sorella della moglie dell’Artista. Ma ho sempre voluto molto bene a mio zio come e forse più che a mio padre. Non voglio essere il suo traditore.

Ho conosciuto mio zio nel 1924 quando lui e la zia Giulia vennero a trovarci a Porto S. Stefano. Allora ero un ragazzetto di 10 anni vissuto sempre in paese, ma in una famiglia amante della cultura.

Zio ci raccontò i suoi episodi di guerra sulle Dolomiti, recitò Carducci e Pascoli, disegnò scorci del paese: ne rimasi incantato e pieno di ammirazione.

Probabilmente nel mio subcosciente, senza rendermene conto, lo vedevo come l’obiettivo da raggiungere nella mia vita. Da allora ho sempre cercato tutti i modi per stare con lui.

A questo punto credo che sia necessario fornire alcune notizie sulla famiglia di mio zio.

Edgardo, nato a Vercelli il 6 marzo 1882 e morto a Rapallo il 3 maggio 1972, figlio del pittore Ferdinando e di Luisa Miglio, ha avuto quattro fratelli: Irma, Olga, Adolfo e Uberto.

Ferdinando nacque a Vercelli nel 1844 e vi morì nel 1927; famoso pittore dell’800, ritrattista molto stimato, diresse per anni l’Accademia di Belle Arti di Vercelli. Fu allievo di Narducci, di Pittara, di Hayez; molti suoi quadri sono nei due musei di Vercelli, Leone e Borgogna. Si arruolò con Garibaldi il 1° giugno 1866. A casa del figlio Edgardo erano custoditi due fucili ad avancarica e tre sciabole napoleoniche, cimelio del padre; furono rubati negli anni Trenta da una banda di slavi che saccheggiarono le ville della riviera ligure. Di carattere severo anche nei riguardi dei suoi figli, non organizzò mostre dei suoi quadri. Fu il primo maestro di Edgardo, Irma e Adolfo; ad essi insegnò soprattutto l’arte del disegno e la sua fondamentale importanza. Fu certamente un grande pittore, soprattutto un grande ritrattista, ma alla maniera dei grandi del passato; non fu infatti un innovatore, come ha scritto la figlia Olga.

La figlia Irma, sposata Fontana, visse la maggior parte della sua vita a Varigotti, dove morì nel 1943. Nata nella casa paterna nel 1878, fu una brava pittrice, soprattutto miniaturista, citata dal Comanducci; numerose sue opere sono conservate nei musei di Vercelli. Ho avuto il piacere di conoscerla di persona a Rapallo: era piccolina, molto magra, con i capelli bianchi e occhi azzurri. Il suo aspetto e il suo modo di fare molto gentile, ispiravano simpatia e anche tenerezza. Di lei così dice G. Soldato nella intervista sulla Sesia del 1955: “… gentile e signorile figura d’artista, che fu pittrice nobile e delicata”. Il marito, Fontana, compagno di armi di Edgardo (vedi il quadro: “I due fratelli d’arme”), lavorava presso un Ministero, e, a quanto mi ha raccontato zio, aveva scritto molti lavori di filosofia e di storia che mai pubblicò e addirittura bruciò prima di morire. Sembra sia morto di leucemia. Non ebbero figli.

L’altra figlia di Ferdinando, Olga, ebbe anch’essa tendenze artistiche come tutta la famiglia. Studiò disegno e pittura col padre ma per breve tempo. Ho di lei un grazioso acquerello. Carattere inquieto e volitivo, sposò l’allievo del padre Umberto Ravello, ottimo pittore, del quale sono conservate in vari musei numerose sue opere. Ravello morì nel 1917 sul Grappa, guadagnandosi la medaglia d’argento; era capitano degli Alpini. Olga sposò in seconde nozze il diplomatico francese Jean Juge, col quale ha vissuto un lungo tempo a Madrid prima e a Ginevra poi, dove ha chiuso la sua vita terrena. Molti quadri del padre, del primo marito e del fratello Edgardo, che erano in suo possesso, sono purtroppo andati perduti nella guerra di Spagna. Laureata a Parigi in Storia dell’Arte, i suoi rapporti con zio erano piuttosto competitivi: i due avevano infatti caratteri forti.

Degli altri due fratelli di zio, Uberto e Adolfo, non posso dire nulla di personale perché, per la giovane età nella quale sono morti, non ho avuto occasione di conoscerli, e da zio ho saputo ben poco. Adolfo morì sui 20 anni nel 1893 durante una epidemia di tifoide a Torino dove frequentava l’Accademia; zio ne parlava con molto affetto e stima e mi fece vedere alcune cose da lui fatte: una magnifica cornice traforata e scolpita, due bellissime sedie intarsiate e due quadri d’autore perfettamente riprodotti. Nella sua autobiografia zio dice così di lui: “Conservo ancora alcuni dipinti di Adolfo, studi da lui compiuti in Accademia, allora diciannovenne, che sono trattati con eccezionale abilità e si direbbero opera di un Maestro… Egli era poi anche scultore, ceramista, intagliatore, incisore, litografo. Trattava cioè ogni tecnica e forma di arte con la stessa disinvoltura, non solamente, ma curioso di ogni tipo di artigianato, si industriava a creare qualsiasi cosa gli venisse in mente, realizzando anche, con mezzi di fortuna, giochi meccanici e fantastici per divertire i fratelli minori.” Ho trovato tra le carte di zio alcune lettere di lui al padre, nelle quali chiede di aiutarlo nei rapporti con l’Accademia e alla madre cui manifesta tutto il suo infinito affetto.

L’altro fratello, Uberto, “era il solo della famiglia che non si sentisse pittore: era un fantasioso, appassionato di avventure, audace, violento, temerario, spericolato, l’eroe nato in tempi di pace. E morì in alto mare sulle coste dell’America per colera, scoppiato a bordo del piroscafo, sul quale era imbarcato come aiuto-macchinista. Era giovanissimo quando fuggì di casa per correre l’avventura”. Così dice di lui Edgardo nell’Autobiografia.

Edgardo a dieci anni circa, come riferisce nell’autobiografia, entrò in seminario a Vercelli, ma resistette poco tempo. E’ interessante riferire uno strano antefatto, ripetutamente raccontatomi: un giorno il padre avrebbe chiesto al ragazzino: “Cosa vuoi fare da grande?” Risposta: “Il re!” Avendogli spiegato che non sarebbe stato possibile, ad una nuova richiesta rispose: “Il Papa!” Il padre lo avrebbe messo di lì a poco in seminario. Il fatto è veramente strano ed ha più l’aria di una storiella che di una cosa vera. Ma zio ci teneva a raccontarlo. Potrebbe dimostrare, se vero, i rapporti severi che esistevano tra il padre e i figli. Zio non si trovò a suo agio in seminario, soprattutto per ragioni di cattiva salute, forse dovuta alle frequenti epistassi e ad una alimentazione incongrua. Tornò a casa e cominciò lo studio del disegno sotto la guida del padre. Conseguì la licenza di scuola tecnica, per avere un titolo di studio che gli permettesse di iscriversi alle Accademie, e si iscrisse ai corsi serali dell’Istituto di Belle Arti di Vercelli sotto la direzione del pittore Carlo Costa. Quindi frequentò la stessa Accademia, diretta dal padre e successivamente dal Narducci, per poi studiare all’Accademia di Torino, dove apprese la tecnica della pittura e quella del disegno che lo accompagneranno per tutta la sua vita e che rappresenteranno una delle caratteristiche fondamentali della sua Arte.

Nell’autunno del 1901, insieme al cognato pittore, Umberto Ravello, andò a Venezia. Qui ebbe una attività frenetica frequentando, sotto la guida del pittore Nono, oltre ai corsi regolari, quelli di nudo e di paesaggio. Conseguì la docenza in disegno. Ma a Venezia non soltanto perfezionò la tecnica del disegno, ma apprese anche ad interpretare nella pittura i colori vivi e caldi che gli offriva la città.

Si spinse poi nel vicino Cadore dove avvennero due fatti che condizionarono la sua vita successiva: l’amore senza limiti per le Dolomiti, con le loro forme meravigliose e i colori spesso fuori da ogni immaginazione, e l’amicizia con molti cadorini, fra i quali il pittore Virginio Doglioni, i due fratelli Palatini, l’avvocato Aldo e l’ingegnere Giuseppe, il capitano Celso Coletti e tanti altri. A Pieve di Cadore, ancora sotto l’Austria, frequentava il bar Tiziano, dove una sera fu obbligato dai suoi amici, che conoscevano la sua bravura di “dicitore”, a recitare la Canzone dei Dardanelli dalle Gesta di Oltremare di Gabriele D’Annunzio. La sera stessa trovò a casa la polizia che gli impose di partire su due piedi.

Oltre al patriottismo della famiglia fu anche l’amicizia per queste persone che lo spinse il 1° giugno 1915 ad arruolarsi nel Battaglione Cadore del Corpo Volontari Alpini, organizzato da Celso Coletti. Da notare che era stato “riformato” per “mancanza di torace”, come si permette di scrivere ironicamente nel suo libro La mia guerra gioconda pubblicato dal 10° Alpini nel 1939 e riedito da Mursia nel 1999 col titolo Con gli alpini in guerra sulle Dolomiti. La “mancanza di torace” non gli impedì di passare tre anni sulle cime più alte delle Dolomiti a temperature di 40 gradi sotto zero ed oltre. Ho un quadretto fatto sulla Croda Rossa dove il colore è stato messo con la spatola, dopo averlo scaldato alla fiamma di una candela, dato che la temperatura bassissima impediva l’applicazione con il pennello. Prese parte ad azioni di guerra sul Monte Piana, al Peralba, a Cima Forame, alla Croda Rossa, ai laghi d’Olbe. Spesso veniva mandato dal Comando Alpini a disegnare le zone di combattimento sulle quali, di notte, uscendo dalle nostre linee, disegnava le vampate della artiglieria nemica. Una notte fu preso da una pattuglia austriaca, dalla quale si liberò usando un coltello a serramanico che aveva nascosto nei calzettoni. Il 30 settembre 1917 venne riconosciuto… abile e inviato alla Scuola Allievi Ufficiali di Ravenna e il 23 maggio 1918 venne nominato sottotenente e rimandato al 7° Alpini schierato sul Monte Grappa. Nell’ultimo anno di guerra aveva collaborato con i suoi disegni al giornale di trincea “L’Astico”.

Il 23 marzo 1919 fu messo definitivamente in congedo e potè riprendere l’attività artistica stabilendosi a Firenze, da dove era partito, unico volontario, quattro anni prima. È da notare che anche in trincea, fra un combattimento e l’altro, non cessò di essere oltre che alpino anche pittore. I numerosi quadri, all’epoca della ritirata del 1917, furono nascosti in una baita di Pieve di Cadore che, a guerra finita, risultò bruciata e distrutta. Altra distruzione di quadri, frutto di tanti anni di lavoro, il Rossaro l’ebbe, dopo la fine della guerra, per lo scoppio della polveriera a Firenze – nella Autobiografia è descritto in maniera triste ed ironica il risultato di anni di patire per il rimborso, che fu sempre promesso ma mai conseguito.

Le numerose difficoltà, compresa anche una relativa miseria, insieme alla malvagità di uomini, soprattutto colleghi, non rallentarono l’attività del Rossaro che, a Firenze, studiò nei musei le opere dei Grandi Maestri del passato e lavorò con tenacia inviando suoi quadri a moltissime esposizioni. Con risultati molto spesso brillanti. Questa tenacia nello studio e nel lavoro è ben descritta nella intervista del giornalista Alessandro Francini Bruni, che nel 1924 diventò suo cognato. Il Rossaro trovò ottima accoglienza e aiuto soprattutto nei colleghi reduci di guerra, con i quali si tenne collegato, a Firenze stessa ma anche a Ferrara, Bondeno, Roma, Milano. A Bondeno abitava il compagno d’arme Ferdinando Grandi, grande estimatore dell’arte di zio; col tempo diventò suo mecenate e raccolse una notevole collezione di quadri, che alla sua morte è passata ai due figli Giorgio e Corrado.

Frequentò i circoli fiorentini di cultura, di musica, di teosofia, di letteratura e pittura. Ebbe così occasione di conoscere e discutere con Papini, Prezzolini, Ciampi, Chini, Nomellini e tanti altri che portavano avanti le idee nuove dell’Impressionismo. Frequentò l’Accademia di Belle Arti diretta dal Fattori, caposcuola dei Macchiaioli. Ho avuto occasione di recente di ammirare alla Versiliana una mostra di pittura e disegni del Fattori. Molto belli, non c’è dubbio, ma ho avuta l’impressione che le opere di Rossaro siano più vigorose nel disegno e nel colore, più luminose, con più nerbo. Forse l’affetto mi fa velo nel giudizio. Mah! Ai posteri l’ardua sentenza.

Fra i numerosissimi bozzetti lasciatimi da mio zio ve ne sono due dedicati alla moglie; sul più vecchio, del 1906, si legge “Alla Signorina Giulia Francini” e sull’altro, del 1925, “A Giulia” . Evidentemente il primo le è stato donato quando si sono conosciuti. Il loro incontro risale infatti al 1906, nel primo periodo di soggiorno a Firenze.

Credo che sia importante ora dare qualche notizia su colei che fu compagna serena, comprensiva, affettuosa per circa 40 anni. Figlia di un capo stazione delle ferrovie dei dintorni di Firenze, sorella del giornalista e professore di lettere Alessandro Francini Bruni e di Albertina nonché di mia madre. La sorella Albertina era ritoccatrice di Alinari e mia madre maestra a Porto S. Stefano. Anche la zia Giulia era diplomata maestra; aveva una notevole cultura, conosceva il francese e l’inglese e possedeva una bellissima voce di soprano, che aveva coltivato ma non sfruttato, in opere e concerti. Era stata, per queste sue qualità, dama di compagnia della Marchesa Martelli per alcuni anni. È probabile che zio l’abbia conosciuta al salotto della Marchesa o tramite la sorella Albertina. L’unione fra lei e mio zio si può dire che sia stata di quelle fortunate. Dopo un lunghissimo periodo di fidanzamento, si sposarono a San Francesco (Fiesole) il 21 dicembre 1922: all’inizio ella condivise con zio una vita di tipo zingaresco, tra Firenze, Bondeno, Milano, Roma, Vercelli e la Riviera Ligure ed infine decisero di mettere su casa a Rapallo. “La casa del pittore”, così si chiamava, era piccola, graziosa e in una posizione magnifica che dominava il Golfo del Tigullio. Vicino al confine con Zoagli c’era la villa dello scultore e amico Minerbi, la Villa Aretusa, e a Paraggi quella degli Ucelli, anch’essi loro carissimi amici. Non è da escludere che la loro presenza abbia condizionato la scelta degli zii. In questa casa hanno vissuto una vita serena e felice, sempre d’accordo fra di loro. Nei momenti più difficili, specialmente per zio, lo ha sostenuto, aiutato con la sua comprensione ed il suo affetto.

Perché zio ha dovuto sopportare periodi veramente duri, dalla fine della guerra in poi, per colpa dei colleghi vecchi e soprattutto giovani che cercavano di farsi largo con metodi non sempre leciti. Ha trovato aiuto fra i colleghi compagni d’armi. Era la caccia spietata alle mostre, alle Esposizioni, agli incarichi, ai critici. In quel periodo era venuto avanti il cosiddetto “Novecentismo”, che facendosi forte di teorie pittoriche (Relativismo) quantomai discutibili, e di critici d’arte che le sostenevano, imposero al pubblico una pittura per lo più inaccettabile dagli artisti veri e onesti. La vertenza fra le due scuole pittoriche fu buttata in politica. Responsabile fu soprattutto Margherita Sarfatti, che contando sull’amicizia di Mussolini, gabellò per “Arte fascista” quella dei novecentisti, con quale danno per gli altri pittori è facile immaginare e per l’Arte stessa in generale. Vi furono polemiche furibonde sui giornali (“Perseo”) e nei circoli artistici, specialmente a Milano. Zio, che partecipava alle lotte, fu bastonato sulla porta di casa (Via Fontana, 7) e spedito all’ospedale con un biglietto attaccato alla giacca: “Primo avviso”. La cosa spaventò terribilmente la moglie di Rossaro, che rifiutò di rimanere ancora a Milano e praticamente lo costrinse a rifugiarsi a Rapallo. Certamente così trovarono la pace ma per Rossaro fu una specie di esilio, di allontanamento dalla vita artistica del Paese, di cui ha subito le conseguenze negli ultimi anni della sua vita. Ciò nonostante non ha cessato di lavorare, anzi direi che ha lavorato ancora di più. La vita dell’ “esule” avrebbe dovuto deprimerlo, e invece la sua reazione è stata di rifugiarsi nel lavoro. Quasi un migliaio di quadri!

A Milano lasciò con rammarico l’amico pittore ferrarese Noel Quintavalle, ex-alpino.

Ma che vita facevano i coniugi Rossaro nella loro casetta, arredata con i vecchi mobili di famiglia, di fronte al Mar Ligure? La mattina, quando il tempo lo permetteva, zio usciva, ed io con lui, se ero a Rapallo e gironzolava per i dintorni del Tigullio; aveva lapis e un taccuino e prendeva appunti, che poi sviluppava in studio. Oppure attaccava a discutere, naturalmente, di pittura, con i suoi amici pittori Battaini, Minonzio o altri colleghi di passaggio. Alle volte incontravamo il poeta americano Eszra Pound o il prete Don Shout con il suo bel Terrier ricciuto. Zia nella mattinata si occupava della casa o usciva a fare spese. Nel pomeriggio, dopo un breve riposino, zio si rifugiava fino a tarda sera in studio. Qui scriveva o dipingeva. Pound spesso veniva in studio nel pomeriggio a porre a zio problemi di glottologia, ai quali zio rispondeva come poteva; poi il colloquio andava a finire in politica e Pound attaccava a parlare della “usura” e degli ebrei che secondo lui ne erano responsabili. Dopo cena spesso zio andava a Zoagli a casa di Minerbi o al castello di Sem Benelli, dove con altri (Giordano, Gotta, Battaini, ecc.) discutevano fino all’alba di arte o dei modi migliori per salvare il mondo! Talvolta , tre o quattro volte all’anno, zio era invitato ad un club culturale di Rapallo diretto dalla Signora Benoit-Pierrotet; zio si esibiva come dicitore di poesie di D’Annunzio, Pascoli, Carducci ottenendo sempre dei bellissimi successi. Altre volte ascoltavamo concerti di musica da camera o di musica lirica.

Se ero a Rapallo gli facevo compagnia leggendo per lui libri di poesia. Gli autori preferiti erano Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Leopardi, ma anche autori moderni come Palatini, Remondino e altri. Abbiamo anche letto libri di prosa di D’Annunzio e di Zola. Di questo autore il libro preferito era l’Oeuvre (1886), che descriveva la vita di un pittore tanto innamorato della luce da impazzire. Ma non sempre si faceva “salottino di lettura”. Spesso si discuteva di fatti del giorno o di pittura. Mi dava volentieri spiegazioni ogniqualvolta avevo un dubbio su un suo quadro circa l’interpretazione o la tecnica. Una volta, per esempio, si parlò a lungo di un ritratto di zia con la veletta: non capivo come avesse fatto a far sì che la veletta apparisse staccata dal volto. Mi spiegò che aveva fatto diverse prove e che infine, usando una tecnica di miniatura, era riuscito ad ottenere ciò che voleva. Ogni filo della veletta era fatto di tre fili! Nella discussione, poi, dal particolare si passava al generale. Così, ad esempio, zio concludeva che la conoscenza profonda del colore e del disegno era assolutamente necessaria per mettere sulla tela quello che l’ispirazione o l’intuizione richiedevano. Anni ed anni di lavoro, di prove, di pratica come egli aveva fatto dai quindici anni in poi presso tanti maestri. Talvolta, quando si andava in campagna, mi chiedeva, mentre disegnava il paesaggio, quali erano i colori dominanti. Poi me lo richiedeva quando, in studio, sviluppava i quadri. Che differenza fra lui e me! Poi, col tempo, qualche cosa imparai a capire e a vedere! E così capii che il “nero” è un colore e non la mancanza di esso, e non è vero che l’insieme di tanti colori dia il “bianco” come risultato: dà soltanto un marrone sporco, come fango.

Un giorno gli chiesi come mai non l’avevo mai visto dipingere all’aria aperta, come di solito si vede fare, ma soltanto in studio. Mi rispose: “Mi meraviglio che tu mi faccia codesta domanda. A forza di stare con me avresti dovuto capire che il colore è luce e che questa varia in continuazione. Così parti con un colore-luce e arrivi in fondo con tutt’altra cosa. Ecco perché faccio adesso il disegno della zona e metto qua e là sul disegno delle paroline. Esse servono a richiamare l’impressione che ho avuto nel momento che ho “visto” il quadro. Come tu sai, vedendo i miei quadri ed avendo letto con me l’Oeuvre di Zola, amo il colore-luce sopra ogni cosa. Il disegno è soltanto la base. Nei miei quadri c’è sempre la luce. È la mia fissazione. Se tu osserverai un mio quadro, vedrai che i colori cambiano col cambiare della luce. E questo fenomeno dà tanta gioia perché dimostra che il quadro vive. Ho sempre desiderato che i miei dipinti diano a chi li osserva la gioia che ho provato io nel farli”.

Riporto da un articolo de La Sesia di Vercelli del 1955 di G. Soldato: “In una presentazione ad una mostra di Bergamo del 1941, sono raccolti brani di giudizi di critici: da Ezio d’Errico a Edoardo Mottini, da Alberto Neppi a Luigi Gianturco, da Guillaume Janneau a Filippo De Pisis. Desidero riprodurne due relativi a Rossaro: Filippo De Pisis, pittore assai diverso da Rossaro nella visione artistica, ha scritto: … non oserei chiamare classici, nel più spicciolo senso della parola, Edgardo Rossaro e Giovanni Roi, ma essi certo lo sono nelle opere migliori esposte, il primo nell’autoritratto. Edoardo Mottini, che fu insigne critico e storico dell’arte, ha scritto: la sua pittura sembra che debba essere un piacere per lui quando la produce, come lo è per noi quando la contempliamo: facile, tersa, sonora senza riempitivi, esatta e verace…

Ma un giorno si presentò allo studio, mandata da un giornale del nord, una critica d’arte: molto giovane, graziosa, molto elegante e piena di sicurezza e aggressività. Dopo pochi preliminari iniziò a vedere e distruggere i quadri che zio le mostrava: “Questo è bello… ma didascalico, quest’altro ha un buon colore; quest’altro ancora è molto elaborato… ma non lascia spazio alla fantasia di chi lo osserva”. E così di seguito. Mi resi conto che zio gonfiava e stava per esplodere. Presi allora uno dei quadri già visti e lo presentai alla “critichessa” ma questa volta nel retro, dove in una atmosfera nebbiosa sembrava di vedere una donna e un tavolo con sopra una boccia di vino rosso. Lo presentai dicendo: “Questa è L’osteria della bella mugnaia!” Un breve sguardo e poi esclamò, piena di sacro furore: “Mi faccia vedere! Ma questo è una meraviglia! Oh! La bellezza di quei toni grigi! E la macchia rossa del vino!” Feci cessare le esplosioni di entusiasmo dicendole: “La ringrazio del suo giudizio perché questa specie di quadro l’ho fatto io, con la raschiatura della tavolozza di zio!” Gelo e silenzio. Poi la “critichessa” si ricordò che, se non si affrettava… avrebbe perso il treno! Da allora L’osteria della bella mugnaia è diventata fonte di scherzi e risate per noi e i nostri amici.

Ma i momenti di rabbia duravano ben poco in zio. Era, come ho già detto, un uomo sereno, allegro, ottimista, pieno di spirito, alle volte era quasi un ragazzo. Potrei ricordare tanti episodi che confermano questa affermazione.

Un giorno scendevamo al mare per la via Seglio. Davanti a noi c’era una signora che a zio parve una nostra cara amica che stava nella villa vicino a noi. Passandole accanto le rifilò una solenne pacca sul sedere… non vi descrivo la faccia di zio quando si rese conto che non era la nostra amica ma la moglie di un generale di armata che era venuta a stare da poco tempo vicino a noi. Per fortuna la signora era una donna di spirito che non si offese della eccessiva manifestazione di zio.

Un’altra volta, sempre percorrendo via Seglio, fu attratto dalla lucentezza di un campanello appena lustrato che brillava nel sole e lo tirò, senza accorgersi che la padrona era affacciata al muro di cinta. Alla domanda della padrona di cosa volesse, non seppe rispondere altro che: “E’ stato un ragazzaccio che se l’è data a gambe!” E lei rispose: “L’ho visto io il ragazzaccio…!” Anche di questo episodio abbiamo tanto riso nei giorni successivi.

Può sembrare che questi due fatterelli abbiano un effetto negativo nella valutazione del carattere di zio. Invece ritengo che non sia così. Essi dimostrano uno spirito giovane e sereno e un animo semplice, quali egli aveva.

Non dobbiamo dimenticare che egli era artista, figlio di artista, vissuto sempre tra artisti. Ma c’è di più: era stato quattro anni nel corpo degli Alpini durante la prima Guerra mondiale e di essi aveva acquisito tutte le migliori qualità. In un suo taccuino di trincea ho trovato scritti questi pensieri molto profondi che ci mostrano la bellezza del suo animo e la forza della sua mente: “Vi sono tre cose assai difficili ad intendere, anzi quattro, che pochi raggiungeranno: Vedere – Ascoltare – Leggere – Pregare. Tutte sono elevazione. Occorre a raggiungerle: Astrazione – Concentrazione – Animo semplice.” Soldato li ha riferiti in una sua intervista del 1955 su La Sesia di Vercelli.

Come ho detto poco sopra, ritengo che l’appartenenza al corpo degli Alpini abbia influito molto sul suo carattere. Finita la guerra, aveva continuato, nella vita di tutti i giorni, ad essere un alpino. Aveva frequentato le loro vallate di montagna per dipingere o per ascensioni, trovando spesso vecchi compagni d’arme. Ogni anno aveva partecipato alle loro riunioni, tornando a casa ringiovanito.

Quando accadde la tragedia del Vajont, mandò subito dieci dei suoi quadri migliori perché fossero messi all’asta e il ricavato fosse distribuito alle famiglie degli alpini colpiti; molti di loro erano stati suoi compagni nel Battaglione Volontari Alpini del Cadore. Il meraviglioso spirito di fratellanza alpina lo rendeva diverso e migliore rispetto agli altri.

Rossaro ebbe sugli ottanta anni una lieve crisi cerebrale (precisamente un attacco ischemico transitorio) che durò poche ore senza lasciare residui. Dopo qualche giorno di riposo riprese a dipingere e a fare la sua solita vita.

Nel 1965 morì, a seguito di una frattura di femore da caduta, sua moglie Giulia. Fu per lui un trauma psichico non indifferente. Fummo costretti a mettergli in casa una nostra amica, per non lasciarlo solo e per accudire ai suoi bisogni. Ebbe la fortuna di trovarsi molto bene, tanto che col passare degli anni si trasferì addirittura nella sua casa, come un ospite. La casa era accanto a quella di zio.

Passò abbastanza bene l’inizio dei novanta anni. Ma dopo qualche mese cominciò a non voler più uscire di casa, a non interessarsi di ciò che accadeva intorno a lui. Passava la maggior parte del tempo a letto con gli occhi chiusi. Volle il sacerdote e i sacramenti. Eravamo molto preoccupati e temevamo il peggio, quando un pomeriggio arrivò un gruppetto di Alpini liguri a trovarlo. Mi raccomandai di non affaticarlo. Dopo un po’ andai a controllare. Incredibile! Era seduto sul letto, rideva, canticchiava, scherzava con i suoi compagni d’arme. Un vero miracolo della fratellanza alpina! Due giorni dopo morì. Si spense come una lampada che ha consumato l’olio. Serenamente, come sereno era sempre stato nella sua vita; direi una morte gioconda, se gioconda ha potuto chiamare la Sua Guerra.

Goffredo Scotti

Viareggio, agosto 2004


AUTOBIOGRAFIA

[ estratto ]

Oggi, domenica, in un giorno qualunque, inizio queste memorie.

Dice il grande Benvenuto: “Tutti gli uomini di ogni sorte, che hanno fatto qualche cosa che sia virtuosa, o sì veramente che le virtù somigli, dovrieno, essendo veritieri e da bene, di lor propria mano descrivere la loro vita; ma non si dovrebbe cominciare una tal bella impresa prima che passato l’età de’ quarant’anni. …”.

Perciò io, che navigo oltre i settantacinque anni, e ritengo di aver fatto qualche cosa “che la virtù somigli” cercherò di dare notizia, non di me per me, ma per dire del tempo e delle contingenze in cui sono vissuto, e dei modi per cui l’Arte, che era grande, si è abbassata fino al livello in cui può essere oggi ammirata nelle grandi parate di Venezia – Roma – Parigi – Monaco ecc. ecc..

Cercherò di descrivere la vita mia, simile a quella di tanti onesti sacerdoti dell’Arte, nei sessant’anni da che cominciai a vivere nel mondo dell’Arte e degli Artisti. Veramente in questo mondo io ci sono nato, poi che mio Padre Ferdinando era Pittore, e di alto valore, e da Lui soltanto io trassi oltre all’insegnamento, l’istinto che mi ha sempre guidato, nascendo pittore come si eredita il colore dei capelli, degli occhi o un carattere violento o la tubercolosi. E insieme alla fantasia, alla sensibilità per il colore, il senso di osservazione e la memoria delle forme, ereditai forse anche la passione per tutto che sa di romantico; mentre, trassi dalla dolcissima mia Madre, il misticismo e l’ottimismo che han sempre improntata la mia vita, sebbene per savio ragionamento e per le avversità che mi toccarono, avrei dovuto diventare scettico e pessimista.

Fu la ingenua interpretazione del mio misticismo che mi spinse, a dieci anni, voler ostinatamente entrare in seminario – cosa di cui fui pentito fin dai primi giorni – ma resistei per mostrarmi coerente; fin che dopo un anno e mezzo, venni richiamato a casa in seguito alla morte dei miei due fratelli maggiori.

Questa prova di seminarista potrebbe essere un racconto istruttivo, ma esulerebbe dal mio proposito, portandomi fuori strada. Voglio tuttavia riferire un episodio che oggi mi appare come simbolo del mio destino. “Voi non avrete mai veramente fortuna, pur riuscendo quasi sempre a cavarvela senza veri disastri, anche nelle situazioni più difficili” questo è l’oroscopo che mi previde una strana zingara, quando avevo appena ventun’anni, e fu veramente indovina.

Ecco dunque l’episodio: quando sono entrato in seminario, non avevo ancora dieci anni e non avevo fatto la prima Comunione, pur avendo ricevuta già la Cresima. Ero l’unico, nel collegio, che non fosse promosso ancora al Sacramento e rimanevo quasi mortificato, la domenica, solo nel banco mentre tutti i compagni si avvicendavano all’Altare. Un giorno però, venni chiamato in direzione, dove il buon Don Gianotti mi disse con fare paterno: “Tu non hai fatta ancora la tua prima Comunione, pure essendo spiritualmente preparato; ma c’è una difficoltà: è prescritto dal regolamento del nostro Istituto che quando qualche allievo è promosso alla Santa Comunione, tutto il Collegio debba essere in festa: vacanza completa, libertà dallo studio e da ogni altro dovere; doppia pietanza, il dolce alle mense, come nelle feste più solenni. Ora tu capirai che tutto ciò porta un disturbo e una ingente spesa per l’Istituto, cosa che non è giustificata trattandosi di un solo ragazzo. Bisognerà quindi attendere che si aggiunga qualche altro allievo nella tua condizione per fare così una festa collettiva. Frattanto però, poi che non è bene che tu sia escluso dal S.S. Sacramento, comincerai a fare la seconda, poi la terza, e via via continuerai, fin che non si darà l’occasione di poter festeggiare la tua “prima”.

Così, siccome l’occasione non venne mai, con mossa garbata, mi venne soffiato questo giorno di infantile letizia che molti – anche grandi – uomini annoverarono tra i più belli della loro esistenza.

Giunto ora all’ultimo traguardo, vedo che – altrettanto destramente – mi venne soffiata la polpetta dal piatto ogni volta, quando ero convinto di averne pieno diritto.

Era, il primo dei miei fratelli – di otto anni più anziano di me – egli pure pittore e, come molti predestinati a scomparire giovani, prometteva di divenire un grande Artista. Conservo ancora alcuni dipinti di Adolfo, studi da lui compiuti in accademia, allora diciannovenne, che sono trattati con eccezionale abilità e si direbbero opera di un Maestro. Morì di tifo durante l’epidemia scoppiata a Torino nel 1893. Non aveva ancora venti anni. Egli era poi anche scultore, ceramista, intagliatore, incisore, litografo ecc.. Trattava cioè ogni tecnica e forma d’arte con la stessa disinvoltura, non solamente, ma curioso di ogni tipo di artigianato, si industriava a creare qualsiasi cosa gli venisse in mente, realizzando anche, con mezzi di fortuna, giochi meccanici e fantastici per divertire i fratelli minori.

Non sono mai riuscito a spiegarmi come facesse a muovere certi burattini, da lui fabbricati, tra i comignoli di una casa attigua alla nostra, creando una specie di rappresentazione, mentre egli stava in mezzo a noi. Ricordo di averne parlato anche, vari anni dopo la sua morte, con mio Padre, il quale – come me – non riusciva a spiegare questo come vari altri suoi prodigi. Sono ancora in casa mia, a testimoniare tanta versatilità, oltre a disegni e pitture, alcune cornici intagliate e due sedie barocche da ingresso, alcune scolture e ceramiche originalissime.

Uberto – l’altro fratello – era il solo della famiglia che non si sentisse pittore: era un fantasioso appassionato di avventure, audace, violento, temerario, spericolato; l’eroe nato in tempo di pace … e morì in alto mare, sulle coste dell’America, per colera, scoppiato a bordo del piroscafo, sul quale era imbarcato come aiuto macchinista.

Rimanevo dunque io solo di maschi con due sorelle. Una, Irma, a me maggiore, che fu ottima Pittrice miniaturista, e un’altra, Olga, la minore della famiglia, che – dopo aver studiato arte essa pure – abbandonò la pittura e si sposò con il mio più caro Amico: Umberto Ravello, pittore ottimo, il quale purtroppo moriva a Fontanel del Grappa (il 13 dicembre 1917) Capitano degli Alpini – Medaglia d’Argento.

Olga si risposò più tardi con Jean Juge, ministro di Francia, addetto all’Ambasciata di Spagna a Madrid.

Quando venni ritirato dal collegio, ero così debole e anemico a causa di continue epistassi, cagionate dallo stupido uso di rapare i capelli a zero, e anche dal “pane e acqua” cui ero spesso condannato per la mia vivacità e mancanza di opportunismo. Sincerità: difetto capitale cui devo la maggior parte delle mie sventure. Dovetti perciò stare a riposo e in cura, per parecchi mesi, e frattanto, per non restare del tutto in ozio, cominciai a trastullarmi col disegno, rivelando a giudizio di mio Padre una buona predisposizione.

I frequentissimi castighi che mi guadagnavo in collegio, mi venivano in gran parte propinati per la mania di fare pupazzi. Oggi si premiano i bimbi che fanno i pupi, anche se li fanno male, a noi, fruttavano fior di scapaccioni e ogni altra persecuzione. Pure, una volta il direttore, sequestrandomi i cartoncini, lapis, colori e anche forbici – strumento con il quale incominciai le mie esercitazioni, sembrandomi il lapis troppo impegnativo – mi disse che era obbligato a prendere quei provvedimenti perché così voleva il regolamento, ma che personalmente, egli pensava che sarebbero inutili, chè chi nasce di gallina convien che razzoli, ed io avrei certamente seguita l’arte di mio padre, per la quale mostravo seria inclinazione. Specialmente egli ammirava un Gesù crocefisso che figurava tra la merce che mi avevano sequestrata.

Rimanendo a riposo dunque cominciai a razzolare per lo studio degli allievi del Babbo, ad aiutarli a tirar tele, a fare preparazioni, a pulire pennelli, e intanto mi esercitavo a modo mio e seguivo anche un corso che Papà mi aveva assegnato.

Poi, l’anno seguente, mi iscrissi anche all’Istituto di Belle Arti – scuola serale – diretta dal Pittore Carlo Costa, e a fine d’anno ebbi la prima menzione onorevole.

Dopo aver conseguita la licenza di scuola Tecnica – per avere un titolo di studio che mi servisse per le accademie – entrai decisamente tra gli allievi di mio Padre, deciso a seguirne le orme.

Una delle preoccupazioni del Babbo a mio riguardo, era causata dalla passione che mostravo per la filodrammatica: a quattordici anni con un gruppo di coetanei impiantammo il primo circolo filodrammatico, nel quale per autoiniziativa e, per consenso unanime dei compagni, fungevo, oltre che da primo attore, anche da capocomico o regista (come con brutto neologismo si dice oggi). Poi, più tardi, si passò in una sede più ampia e decorosa, impiantando una vera società filodrammatica nella quale io mantenni sempre il mio ruolo, fin che non lasciai Vercelli, mia città nativa, per andare agli studi a Venezia.

Naturalmente, oltre che attore, ero anche lo scenografo della Compagnia e così cominciai a ingegnarmi con le tempere a colla e i colori in polvere, dipingendo boschi e giardini, monti e mari, che non avevo mai veduto, fin che un giorno mio Padre mi disse: “So che dipingi le scene per il tuo teatrino; portami a vedere.” Io avevo coscienza di fare delle bambocciate, ma non osai dire di no, e fu così che mio Padre, dopo averlo constatato, pensò di trarre profitto dalla passione, per farmi studiare con maggior lena; e mi fece eseguire, sotto il suo controllo, sipario e scene ecc.. Così mi appassionai alla prospettiva e guadagnai una certa scioltezza decorativa, nel disegnare panneggi e guardare il paesaggio a masse, a toni semplici e colori vivaci. Ecco che dalla mania per il teatro, che faceva temere al Genitore che volessi lasciare la pittura per fare l’istrione – come diceva per canzonarmi – sortì invece una maggior passione per la pittura.

Una certa mania di istrionismo però mi rimase pur sempre, e fu quella che, unita all’istintiva inclinazione per la poesia, mi fece, più tardi dicitore di versi e poeta. Il teatro era stato, oltre alla pittura, il grande amore della mia giovinezza. Oggi, nessun giovane potrebbe immaginare di quali sacrifici, di quale tenacia, di quali eroismi fummo capaci, per mettere insieme un ambiente decoroso, quasi lussuoso e – senza quattrini come eravamo – oltre a pagare l’affitto, impiantare un palcoscenico e degli spettacoli non ignominiosi, ai quali potevano assistere le migliori famiglie della città e spesso anche le autorità. A quei tempi s’aveva da casa, sì e no, una liretta per settimana. Il legname, la tela, la carta, i colori, tutto costava anche allora e, se avessimo dovuto ricorrere a operai, non sarebbero bastati tutti i nostri soldarelli riuniti; ma la nostra volontà era immensa. Non un soldo era speso per noi, non un’ora di libertà era spesa fuori dalla filodrammatica. Si lavorava di giorno, di notte, tutte le feste completamente; là dentro si smartellava, si cuciva, si fabbricavano i mobili, i costumi, le quinte, le arie ecc. (tra i soci erano anche tre sarti). Se c’era poi da portare qualcosa di voluminoso o di pesante, non ci si peritava a fare il facchino, a tirare il carretto; e chi scopava, chi lustrava le lucerne, i vetri, chi dava l’olio al pavimento, che era di mattoni e sollevava una polvere incredibile, chi curava e spazzava la stufa … cose tutte che, se ordinate a casa, si sarebbero fatte di malavoglia, diventavano gioia, divertimento, “sport”. E cosa è generalmente lo sport, se non un facchinaggio volontario? Ma c’era anche la parte intellettuale: lettura delle commedie e loro adattamento. La copia dei vari ruoli generalmente era fatica di qualche compiacente sorella od amica, e poi lo studio, le prove, ecc..

Si dava così il caso che quel gruppo di ragazzi riuscisse non soltanto a far fronte onorevolmente a tutte le spese, ma anche a versare, di quando in quando, delle discrete sommette per qualche opera di beneficenza, per cui si allestiva uno spettacolo speciale. Tutte le compagnie di guitti che venivano a naufragare in Vercelli, ricorrevano a noi per aiuto, e noi, fondendoci con i loro elementi, si allestiva qualche migliore esibizione e si trovava modo, divertendoci, di fare del bene. Oggi, questa forma di divertimento è finita, perché tutti i Dopolavoro, le Cooperative, i Sindacati ecc. creano delle filodrammatiche ufficiali, rionali, comunali o regionali, a spese dell’ente o del comune. Fabbricato il teatro, le scene ecc. da tecnici, con un regista professionista, naturalmente stipendiato, e spesso con gli attori dilettanti ricompensati con gettone di presenza – come i deputati – vengono allestiti spettacoli pretenziosi e freddi. Allo stesso modo che, incoraggiando tutti i bimbi a far pupazzi e presentandoli poi in parodistiche esposizioni ufficiali, con premi in denaro e incoraggiamenti e riproduzioni sui rotocalchi, si formano soltanto dei ragazzetti presuntuosetti che non saranno mai seri artisti. Tale scopo si raggiunge anche con le mostre ufficiali di pitture e sculture dei dopolavoristi, medici, farmacisti, professori e operai, con critiche sui maggiori giornali e riproduzioni sulle riviste e al cinema e alla televisione: parodie di cose che dovrebbero essere serie e morte di ogni slancio naturale, di ogni passione seria. Tutto ciò che si ottiene facilmente senza fatica, e senza spesa di persona, avrà sempre lo stesso deprecabile risultato.

Un giorno, il Babbo, che aveva lezione all’Istituto di Belle Arti, alle 16, mi chiamò per incaricarmi di andare in sua vece alla stazione per ricevere il suo vecchio Amico, lo scultore Ramazzotti. “Ma come lo conoscerò io?” “Lo riconoscerai senz’altro: un cappello a larga tesa, una barbetta male seminata e i capelli arruffati. Alto almeno un metro e novanta. Ce n’è abbastanza per riconoscerlo tra mille”.

Ero dunque in stazione all’ora fissata e studiavo tra i passeggeri se qualcuno emergesse con le caratteristiche descrittemi, quando mi sentii posare una mano su una spalla: “Tu sei il Rossarino. No?” “Sì. E lei è Ramazzotti; ma come ha fatto a riconoscermi?” “Sfido, sei il ritratto di tuo padre all’età tua, quando s’andò a Roma”. Ero sbalordito; poi che allora io ero, se mai, il ritratto della Mamma e mai nessuno aveva osservato che somigliassi a mio Padre. Più tardi sì, dai sessanta in su … ma allora …. Cosa è il miracolo dell’atavismo! Come si possono fondere così i caratteri fisici come i morali!

Le conversazioni e le rievocazioni di questi due colleghi che furono, oltre che compagni di studio, camerati d’armi – volontari garibaldini – furono per me una rivelazione. Babbo non aveva mai parlato in famiglia di quella parentesi della sua vita: rideva di molti che si presentavano alle parate patriottiche in camicia rossa. “Quando mai l’hanno portata? Non c’era che qualche ufficiale in divisa. Noi s’era una massa eterogenea, vestiti – e peggio – armati in modo maccheronico. Io ero in cilindro e calzoni bianchi e avevo come arma un certo catenaccio di fucile a pietra, non buono ad altro che ad esser usato come clava. Chi aveva una specie di lancia – come gli abissini – e chi un coltellaccio da cucina. Pure eravamo sicuri, guidati da Lui, di far paura al mondo intero”.

E rievocarono il loro arresto a Roma, dove erano per studio, e l’esilio dalla medesima, come indesiderabili cospiratori; e il loro reingresso dalla Porta Pia.

Quei loro lieti discorsi si incidevano a fuoco sul mio spirito romantico e mi guidarono poi, quindici anni dopo, all’arruolamento tra i “Volontari Alpini del Cadore” per la guerra 15-18.

Lasciai dunque la mia nativa Vercelli e i cari amici della Filodrammatica Umberto I nell’autunno del 1901, per andare a Venezia insieme al mio indivisibile Amico Umberto Ravello.

Per strano caso, arrivammo in quella città di sogno sullo stesso treno con cui viaggiavano l’allora Principe Vittorio Emanuele III con la Sposa, Elena del Montenegro, suppongo in viaggio di nozze.[1]

Credo che anche il grande Gabriele si troverebbe imbarazzato a esprimere il meraviglioso stupore di noi due, studentelli provinciali che s’arrivava a Venezia – mai vista prima, se non in oleografie – verso le ore 18 – 19 in una inattesa contingenza così straordinaria. Ci trovammo sulle Fondamenta spintonati e sballottati dal pubblico che le gremiva, e ci guardavamo intorno imbambolati dalle luci di bengala, che illuminavano fantasticamente la già fantastica chiesa del Redentore, e intorno gondole, gondole e bandiere al vento e una gloria di luci e di colori. Ci sentimmo afferrare per un braccio da un anziano Signore, il Signor Vianello che ci attendeva e ci riconobbe all’aria spaesata.

Lori i xè i paronsini Rossaro e Ravelo? Che i vegna da questa, bravi, prima che i ne schissa; go qua la gondola”.[2]

C’era col Signor Vianello una Signorina, che premurosa ci guidò allo scalo. Sedemmo così in una gondola, la quale si accodò ad altre migliaia al seguito delle bissone reali, attraverso a quel divino Canalazzo, illuminato magicamente da bengala di ogni colore, sì che parevano, quei palazzi merlettati e dorati, favolose dimore delle fate, intessuti di gemme, costruiti di cristalli e d’argento, folgoranti di tutte le luci e dei più splendidi colori, mai immaginati né sognati, né sognabili da chi non abbia assistito all’incanto di quella città paradisiaca, sorgente dall’acqua che, specchiandole, moltiplica le sue meraviglie.

Intorno era una sarabanda di suoni, di grida, di applausi; e a noi che lentamente si scivolava su quel fiume di gemme, pareva di essere il centro di quel traboccante entusiasmo, e il tumulto esterno si ripercoteva in un più fragoroso tumulto nell’animo fanciullo, tanto che l’un l’altro ci si davano urti e pizzicotti per accertarsi di essere desti, ed essere verità quella che vivevamo in quell’ora.

Il Sor Vianello e la Signorina Clelia ci parlavano, ma noi non intendevamo nulla, assorti in una visione che superava l’immaginazione più fervida e accesa, uno spettacolo cui non eravamo preparati: da ogni balcone, da ogni ponte o fondamenta, piovevano fiori, scoppiavano girandole, sventolavano bandiere, scoppiavano razzi. Passammo così con la massa compatta delle barche l’Accademia, poi Rialto, mentre dal pubblico assiepato sulle rive sempre più folto, cresceva il saluto, l’applauso e il grido di devozione.

E s’arrivò alla Piazza. Previdente il Sor Vianello, che poteva conservare la sua calma, ci fece sbarcare a un pontile assai prima, dove fece sostare la gondola; e così da lì potemmo giungere in Piazza.

L’avevo bene studiata quella meravigliosa sala, su tante fotografie, e immaginato il San Marco che fa da sfondo, con la Piazzetta e la Torre dei Mori: ma quanto sbiadite mi apparivano in confronto tutte quelle immagini in nero o a colori!

Tra quello sfolgorio di luci policrome, il San Marco non appariva soltanto una costruzione superba, ma la rivelazione di un mondo ultraterreno, una creazione fatta di nubi e di stelle, e la Piazza così gremita e sonora era l’anticamera del paradiso.

Ci lasciavamo guidare attoniti come sonnambuli in trance e ci lasciammo rimettere in gondola e portare a casa, per cenare in fretta onde tornare in Piazza per il grande concerto.

Credo che in casa, davanti alla buona polenta, si dissuggellarono le nostre bocche e trovammo qualche convenevole per l’accoglienza cordiale della Padrona e di tutti i famigliari, con i quali avremmo ormai coabitato per oltre due anni. Erano tutte buone creature, dai genitori ai bimbi, e non fu difficile affiatarsi con loro.

Ci era destinata una grande camera, ariosa e chiara, e da tutti avemmo sempre continue cortesie.

Tornammo in piazza San Marco, con le nostre buone guide – questa volta a piedi per calli e ponti e corti e fondamenta – eravamo un poco più rinfrancati, ma per quanto preparati ora al fantastico, fummo ancora sopraffatti dalla realtà.

Alla spettacolare armonia di linee e di luci e di colori, si aggiungeva ora il fascino della musica. Dopo che la folla stipata, con prorompente impeto, ebbe acclamato i Principi apparsi a un grande balcone delle procuratie, un coro di trecento voci oltre a solisti di grido, accompagnato da ben quattro orchestre, innalzò gli inni nazionali più alati, tra le popolari musiche di Verdi, dal Nabucco all’Ernani con la famosa frase tuonata dal baritono veneziano Baretin “Più che il tuo nome le tue virtudi aver vogl’io” ecc.. E marce e cori nuziali, mentre tutti i colori dell’arcobaleno violentavano le sublimi architetture, accendevano roghi d’oro in ogni nicchia e rendevano irreale anche la festosa folla plaudente, creando uno spettacolo che nessuna città del mondo potè né potrà mai eguagliare.

È passato oltre mezzo secolo da quel giorno, e tante vicende quante la storia non aveva dovuto mai registrare, e spero e auguro con tutta l’anima, non debba registrare mai più; pure l’incanto di quelle ore non si è mai affievolito nel mio ricordo.

La mattina dopo – era domenica – tornammo in Piazza con il più bel sole, e la realtà non più sofisticata e ingigantita dalle luci artificiali non ci apparve per questo meno grande: l’interno del San Marco, la Piazzetta, la Scala dei Giganti, il Palazzo Ducale e poi tutti i rii, le corti, i canali quell’acqua in continuo vorticoso movimento e quei colori profondi e il fuoco dei tramonti… Si tenta oggi dagli architetti amici dell’igiene ma nemici della bellezza, di deturpare anche Venezia, come già tutta Italia, e forse si arriverà anche a questo sacrilegio; ma chi si accosta oggi ancora con puro cuore a quella magica città non può non esserne incantato.

La mattina del lunedì ci presentammo subito allo “Studio Rinaldo”. Era questa una scuola d’arte a corso accelerato e vi si studiavano tutte le materie occorrenti per presentarsi ai corsi superiori dell’Accademia e per conseguire il diploma di insegnamento. Il Babbo volle appunto che mi iscrivessi a questo corso per ottenere il diploma, prima di entrare alla Scuola di Pittura.

Fummo accolti molto cordialmente dal professore Rinaldo e da tutti gli allievi. Avevo portato alcuni saggi di miei disegni che furono assai favorevolmente giudicati, ma guardando i disegni dei nuovi compagni, a me pareva che molti fossero più bravi di me. Certamente erano più svelti, abituati a far subito “alla prima” come si dice in gergo studentesco, mentre io, abituato a finire meglio, andavo con piedi di piombo e perdevo tempo. Il mio orgoglio era messo a dura prova; non mi sarei mai rassegnato a non essere tra i primi. Quindi mi buttai a corpo morto, con una costanza ed una tenacia da vero piemontese. Si lavorava in studio dalle nove alle dodici e dalle quattordici alle venti il pomeriggio; ma per nostra insistenza si aggiunse una sezione serale di scuola del nudo dalle 21.30 alle 23.30. Per conto mio, con qualche altro, s’andava anche la mattina all’alba a studiare paesaggio, così che prima delle nove, s’erano già fatte almeno altre due ore. Era un regime forzato, e purtroppo l’organismo ne sofferse, ma in pochi mesi si erano fatti veri progressi.

Intanto in settembre e ottobre era aperta ancora la Mostra Biennale, che diventò la prima palestra di discussioni. Allora la Biennale era una cosa seria. Vi esponevano i maggiori Artisti di tutte le nazioni e vi si vedevano opere non dimenticabili.

Fino dai primi giorni Ravello ed io ci eravamo affiatati con alcuni compagni, che erano i migliori. Tra questi Antonio Ferrazin, di noi più anziano, reduce dal Brasile dove era rimasto vari anni, lavorando da litografo, per farsi un gruzzolo che gli permettesse di tornare in Italia a studiare. Egli si aggregò anche alla mensa nella nostra pensione in casa Vianello, così si studiava in compagnia e si creava un’emulazione cordiale a tutto vantaggio del nostro studio.

Un altro indivisibile compagno di quel tempo fu Trois, detto il vecio, perché pur essendo press’a poco della nostra età, aveva tipo e movenze di vecchio. Era uomo pieno di spirito salace e sarcastico, non gli mancava mai la battuta inattesa; vedeva subito in ogni cosa il lato umoristico e caricaturale, enunciandolo comicamente con l’aria più candida. In casa sua ci si adunava anche spesso la domenica, e le sue sorelle che erano molto belle, si prestavano pazienti a posare per noi lasciando maltrattare i loro bei lineamenti dalla nostra volenterosa imperizia. Ho ritrovato ancora in un vecchio album alcuni studi-ritratto di loro e della buona loro Mamma. Così, sempre in casa sua, ho eseguito il mio primo lavoro per ordinazione, che consisteva in un sipario per il teatro di burattini del celebre Campogalliani: un burattinaio di talento che si dava il tono di un Salvini, ragionando di Shakespeare, di Goldoni e di Molière come di colleghi. Su tale sipario rappresentai le maschere emiliane Fasolino e Sandrone portate in trionfo da tutte le maschere italiane. E qui si rivelò, la prima volta, la mia bravura amministrativa e commerciale: il prezzo del sipario era convenuto in lire 100 oltre alla tela – prezzo che può parere oggi ridicolo ma non allora –. A ritirare l’opera, venne un parente o garzone del Campogalliani, il quale mise sul tavolo un biglietto da 50 lire e due rotoli di monete incartate (come allora usava) che io credetti di argento, cioè valore lire 25 cadauno; e domandò: “Va bene così?” Io, già vergognoso di accettare denaro per un lavoro d’arte, come lo ritenevo, risposi dopo un’occhiata a stracciasacco e un rapido conto mentale: “Sì, sì benissimo”. Il giovane prese il suo sipario ben arrotolato e incartato e se ne andò, lasciandomi con tanto di naso quando constatai che le monete erano di nichel, cioè lire 10 in tutto. Ero così fregato di ben 40 lire! Guardai fuori, uscii anche in calle insieme a Trois, ma il prestigiatore era scomparso.

Mi sovvenni allora del mio buon Padre, che dovendo riscuotere da un cliente lire 200 che gli venivano consegnate in una busta, guardò appena e vedendo due biglietti rossi, come erano i fogli da 100, rispose Egli pure: “Sì, sì va benissimo”. I due biglietti rossi erano invece da lire 25!

Il sangue non è acqua.

In quel primo anno a Venezia, l’unico problema cui ci si appassionava era la nostra preparazione agli esami. Alla fine dell’anno scolastico, me la cavai discretamente per il diploma; ma questo non rappresentava che il punto di partenza. Nel nuovo avrei frequentata la scuola di pittura sotto la guida di Luigi Nono.

Non avevo tuttavia fatti i miei conti con esattezza, perché presentatomi all’Accademia, mi sentii dichiarare che il diploma non era sufficiente per entrare alla scuola di pittura, ma occorreva la licenza dalla scuola di figura, in quel tempo diretta da Ettore Tito.

Allora, con due studi di teste eseguite per conto mio e alcuni disegni, mi presentai direttamente allo studio di Luigi Nono. Gli esposi il mio caso e gli dissi il mio grande desiderio di studiare sotto la sua guida, non potendo frequentare altri corsi perché non avevo mezzi che per un anno. Nono esaminò seriamente i saggi che gli presentavo, disse che il colore era visto bene, le ombre trasparenti, ma che, mancando io della licenza di scuola del nudo, non poteva farmi entrare a Pittura. Mi vide però tanto mortificato e afflitto – avevo le lacrime in pelle – che ebbe pietà. “Bene – disse – facciamo così: lei venga domani alla scuola con carta e brace – niente colori – e rimanga per un tempo indeterminato, disegnando il nudo a chiaroscuro fin che mi parrà preparato a sufficienza”. Non so cosa balbettai per ringraziare, uscii dallo studio del Maestro ballando per la gioia, scissi al Papà la mia vittoria e l’indomani ero alla scuola non certo in ritardo. C’erano a “Pittura” molti studenti, tutti più anziani di me, alcuni uomini maturi, ed il mio naturale orgoglio era messo a dura prova, ma lavorai con tanto impegno da farmi prendere in buona considerazione da tutti.

Più avanti si era anche aperta – sempre nella stessa Accademia – dalle ore 8 alle 12 una scuola libera di nudo, cui si accedeva con la licenza dei corsi di figura. Naturalmente io mi iscrissi subito, così, poi che la scuola di Pittura si apriva alle 9, io potevo prima godere di una buona ora di studio. Un giorno – quando Nono mi aveva già promosso alla pittura – il Maestro ebbe l’idea di fare la consueta visita agli allievi alle 9 anzi che alle 11, come era uso, per garantirsi della regolare frequenza degli allievi. C’erano tutti, tranne che io, poiché proprio quel giorno mi ero fermato più dell’usato alla scuola libera per ultimare il disegno di un nudo. Nono passò tutti in rassegna e arrivato al mio posto disse: “Assente? Proprio lui. Speriamo che abbia una buona scusa, sennò fila.” “Veramente – interloquirono De Kunert e Vio – è sempre assai puntuale.” Ma il Professore senza più parlare accese una sigaretta e sedette.

Arrivai in aula circa le dieci. Nono aveva l’orologio in mano e disse: “Si alza un po’ tardi, signorino” “No, professore, sono rimasto un’ora di più al nudo, per mettere a posto uno scorcio che mi interessava.”

“Faccia vedere” intimò e, svolto il rotolo che gli porgevo, rimase un pezzo a esaminarlo, mentre anche i compagni, come me, tenevano il fiato. “Allora va bene” disse poi riconsegnandomi il disegno senza commenti. “Vada avanti così”.

Così si esigeva allora, e così si studiava in quel tanto deprecato tempo ormai superato.

In quel tempo, con gli amici Trois, Ferrazin e una cara gentile delicatissima amica, Mascha Berghinz, nostra compagna già dello studio Rinaldo, ci permettemmo il lusso di uno studio, nel quale, tutti i pomeriggi si portava qualche conoscente a posare come modello, se no si posava a turno uno di noi. Così non c’era un’ora sciupata mai.

A maggio poi s’apriva la Biennale che seguiva la trascorsa a solo un anno[3], non ricordo per quale ragione, e s’annunziava il primo anno rivoluzionario. C’era stata una viva battaglia per la elezione della giuria e, anche da parte italiana, erano chiamati due giudici stranieri: Bergson e Cottet. Vi furono discussioni vivacissime tra novisti e tradizionalisti, ed alcune accese polemiche dilagavano anche, tra giornalisti e artisti, nei caffè. Si parlava di esclusione di nomi celebrati. Anche alcuni nostri amici avevano affrontato la grande prova, tra essi De Chunert e Guido Balsamo Stella. Di questo, il padre era un critico molto apprezzato, così per mezzo del figlio potevamo conoscere dei retroscena assi piccanti. In ultimo si ebbero proteste collettive sui giornali e nei vari circoli, così che si venne nella determinazione di formare una nuova giuria per aggiungere una sala dei refusès nella quale entrò anche l’amico Stella, insieme a vecchi artisti quali il Mentessi con il trittico “La gloria” e Brass e altri.

Noi, studenti d’arte, con una minima spesa, potevamo avere un ingresso permanente, così che la Mostra era divenuta nostra meta quotidiana, e là ci si adunava ogni sera a discutere, a trinciare giudizi, a esaltare e demolire a seconda dei gusti e della comprensione di ognuno, senza tuttavia seguire ancora mode o conformismi, come ora avviene anche tra i giovanissimi.

Era l’epoca dei Zuloaga – Anglada y Camarasa – Franz Stuck – Grosso – Boldini – Mancini e molti altri abilissimi pennellatori come Zorn.

Come tramontano presto gli idoli e quanto tardano ad essere valorizzati i veri valori, i pochi! Non era nata ancora l’attuale speculazione parigina, che decreta e canonizza i divi, quasi sempre tra i naufragati, quando, per pochi soldi, s’è assicurata l’intera produzione del povero morto in miseria, strozzando la vedova o i figli, disgraziati eredi… Sorgevano appena allora i primi impressionisti francesi e, tra l’irrisione della critica nostrana, i nostri onestissimi macchiaioli toscani, gli scapigliati lombardi e i divisionisti; nessuno dei quali è oggi valorizzato degnamente, sebbene tra loro vi siano valori altissimi, immensamente superiori agli strombazzati francesi e ai vari maestri d’oltre alpe.

Per la prima volta il buon vecchio Fattori aveva ottenuto una sala per una mostra personale a Venezia[4], ed io ricordo che, pur ammirando in questo Maestro la larghezza delle composizioni, la correttezza un po’ rigida del disegno, tuttavia nella sua scanzonata semplicità avevo come una sensazione di freddezza per quella pittura magra e così aliena da effetti coloristici e sensuali contrasti chiaroscurali. Fui però dolorosamente colpito dalla lettura di una critica apparsa sul “Corriere della sera” a firma del mattatore Ugo Ojetti, allora dominante come mai nessun altro critico in Italia. In questo articolo, lamentava che la Biennale, la maggior palestra d’arte del mondo, avesse sciupata una delle sale migliori per questo pittore freddo, scialbo e slavato, che non ha nulla da dire, ecc. ecc.. Insomma una stroncatura feroce e cattiva. Perciò, pur non essendone vero ammiratore, passai dalla parte dell’oppresso, chè mi pareva troppo ingiusto l’inveire contro un vecchio Artista che aveva tutto un passato di nobile fatica. In questo modo mi soffermai assai più sulle sue opere, e andai sempre più persuadendomi trattarsi di un originalissimo e grande Artista, la cui pittura semplice e chiara convinceva maggiormente, quanto più la si osservava senza preconcetti, penetrando così in un suo mondo onesto, quasi dialettale, come si conveniva ad un toscano autentico, e finii per preferirlo a tutte le pitture crostose dei ricercatori di effetti violenti, neri e fumosi.

Seppi, molti anni dopo che Ojetti, forse ricreduto, aveva acquistate molte tele del Fattori, facendo con tale acquisto un ottimo affare.

Per la prima volta vidi alcune opere dei già strombazzati impressionisti francesi: Matisse, Renoir (ultima maniera), Van Gogh, Cèzanne; ne ebbi una sgradevole impressione.

I miei giudizi tuttavia erano quelli di un ragazzo, come quelli dei miei compagni, pochi dei quali – e non so quanto sinceri – dissentivano dai nostri. Ricordo i grossolani sarcasmi di un artista più anziano, ma avanguardista, perché avevo ammirata una testina di bimba del Dall’Oca Bianca, che ancora ricordo come un miracolo di freschezza, mai più raggiunto dallo stesso Dall’Oca. Costui invece, a dispetto delle sue grandi teorie, non riuscì mai a far nulla di nuovo né di vecchio: uno di quei geni da caffè – dei quali oggi è lastricato il mondo – i quali parlano sempre con grande sufficienza, ammirandosi possibilmente nella specchiera di fronte. In verità il Dall’Oca concedeva molto al gusto saccarinoso del volgo, tanto che la maggior parte dei suoi quadri saranno condannati senza resurrezione. Ma quanti dei cosiddetti grandi maestri d’avanguardia reggeranno al tempo? In fondo a questo ostentato avanguardismo, allora appena nascente, si poteva già intravedere il marasma, avvertito dal Thovez, che andò sempre più sviluppando e forse tocca ora il limite massimo: la stranierolatria, propria di noi italiani, il modismo e l’ammirazione incondizionata di tutto quanto ci viene da Parigi insieme alla lunghezza delle gonne e ai più idioti cappelli da signora; e il disprezzo di tutto quello che è nostro, come il nostro buon pane casalingo, la sana polenta.

Forse per i principi inculcati da mio Padre, mio solo vero Maestro, o per l’atteggiamento mentale ereditato col sangue, io ebbi fin d’allora ripugnanza per tutto il disfatto, l’abborracciato, l’abbozzato appena, ben sapendo che un buon abbozzo lo fa anche qualunque mediocre, mentre il finito – dico il finito del Bronzino, di Holbein, di Botticelli, di Rembrandt, da non confondere col leccato, il lisciato del Dolci, per esempio e di moltissimi pittori ottocentisti – questo tipo di finito è studio intenso, analisi di ogni cosa e profondità di sintesi, mentre oggi facilmente si confonde “sintesi” con grossolano schematismo.

Allo stesso modo arriva ad abbagliare gli ignoranti, magari con una seria suonata di Chopin e Beethoven, abborracciata alla meglio, un dilettante che possegga un certo spolvero (come dicono i musicisti), mentre le vere difficoltà tecniche e di interpretazione incominciano proprio allora, per chi intenda esprimere l’Opera d’Arte.

Ma non vorrei, per ora, uscire di seminato.

A Venezia, in verità ebbi modo di divertirmi, ma lavorai moltissimo anche di Paesaggio, in giro per tutte le fondamenta, le calli, le corti, ovunque impiantando il cavalletto come fossimo nel nostro studio: e dico nostro, perché spesso erano con me i soliti indivisibili compagni. Una mattina verso le sette, in fondamenta S. Trovaso, aveva impiantato la mia baracca, quando venne a passare Alessandro Milesi, figura caratteristica di vecchio Pittore, che bene conoscevo. Egli si fermò dietro a osservare, poi d’un tratto rivolgendosi a me: “Galo miga un fulminante per impizar sta cicca?”[5] Gli detti i fiammiferi, ed egli nel restituire la scatola riprese: “Salo, mi go dito cusì tanto per tacar discorso; me conoscelo lu?”[6]

“Sì, signore: lei è Alessandro Milesi”.

Ecco, bravo; come ‘l savarà mi son un pitor dasseno. Chè adesso i xè tuti pitori anche quei che dà ’l color su le barche… vedelo, mi me fa pecà cò vedo un toso che’l ga bona voja e talento, perderse con serte piavolaje. Cossa che xelo quel feral? Che se fa ‘l ritrato de un feral? Via! Via quei balconsini, petegolezi e quei albereti…, via, via. Così el meta bianco de zinco, flaisocher. Salo come se fa i cieli? Miga col blu: se mete bianco de zinco, nero avorio, flaisocher e cobalto, ma poco, così.”[7]

Intanto aveva preso il pennello, il più grande della mia cassetta “Permetelo, vero?”[8] e strizzati mucchi di colore, quali non ero abituato a caricare sulla mia tavolozza, zac, zac, zac… con pennellatone grasse e sicure, portando via alberi e case, costruiva un cielo, che non aveva niente che fare con quello che io vedevo, così trasparente e azzurrino, ma era di un bel tono perlaceo, solcato da una grande nube candida e un po’ calda, bella. “Capijo? Cusì se fa i cieli e via tuti quei petegolezi: el solo necesario”.[9]

Avevo capito.

Incontrai altre volte il vecchio Maestro, e anche mi ritrovò in fondamenta nei giorni seguenti. “Cusì andemo già mejo; ben quel grigio, ma qui più color; el meta sempre soto nero d’avorio, cusì che ‘l se mescola poi con i colori e le fa meno crui”.[10]

Caro buon Vecchio! L’incontrai anni dopo al caffè dell’Esposizione in mezzo a molti artisti vecchi e giovani, abbacchiati ed avviliti tutti per il nuovo indirizzo che prendeva la Mostra e per le nuove tendenze che si andavano manifestando. Andai a salutarlo e gli rammentai le sue cortesi disinteressate lezioni.

Vedeo tosi? E po’ se dise che mi no go mai voluto insegnar a nissun le mie esperienze!”[11]

Purtroppo molti anziani pittori, e in specie quelli che si distinsero per una tecnica molto personale – come Marius Pictor – furono gelosissimi dei loro segreti, come se in questa particolare tecnica consistesse il valore delle loro opere. Piuttosto sarebbe dovere dei pittori preoccuparsi della solidità della tecnica, la quale spesso porta allo sfacelo dell’opera, come avvenne per molti anche valorosi artisti. Certo la ricerca del mezzo migliore per raggiungere certi effetti è cosa che appassiona l’artista coscienzioso – e tra costoro mi allineo io pure… e non sempre con successo, chè per far meglio una pittura murale, che avrei con vantaggio di tempo eseguita a fresco o graffito, condannai alla distruzione un fregio di cento metri quadri. Mania di ricerca che purtroppo portò alla distruzione anche varie Opere del sommo Leonardo.

C’era però a quell’epoca in Venezia un vecchio pittore, mediocre e anche meno, per la verità, il quale possedeva mezzi tecnici che avrebbero potuto rendere preziosa e perfetta l’opera di qualche maggiore artista. Io, allora già maniaco, osservai molto quelle pitture, trovai modo di conoscere l’autore, e cercai, frequentandone lo studio, di penetrarne il segreto. Un giorno però il vecchio pittore, dopo avermi anche più incuriosito, mostrandomi certi preziosi risultati che si potevano ottenere col suo mezzo, mi disse: “Vede, Lei mi è anche simpatico per la sua curiosità e il desiderio di apprendere; ma io non Le insegnerò affatto il mio segreto. Ho lavorato tutta la vita io, per raggiungere questo risultato. Faccia come me, si pianti in galleria, a copiare, a osservare, provare e riprovare…”

“E quando avrò raggiunto l’età sua, avrò forse il mezzo ma non avrò fatto e non potrò fare più nulla. Come chi ha il pane, ma non ha più denti.”

Che miserie! …

Quell’anno era stato a vedermi a Venezia l’Avvocato Antonio Borgogna, il Signore di buon gusto che oltre a varie opere educative, lasciò a Vercelli una ricca galleria di Arte antica e moderna. Mi volle con sé a pranzo, poi desiderò visitare insieme la Pinacoteca dell’Accademia. Dopo aver ammirato tutte le Opere maggiori, si fermò davanti a un piccolo quadro – forse 60x90 cm – di Boccaccio Bocaccino, Sacra conversazione. Sono cinque figure molto aggraziate e minuziosamente rifinite, specie nei broccati lussuosi e coloratissimi.

“Ecco Rossarino – mi disse – ti sentiresti di farne una copia?”

“Credo di sì – risposi – o almeno farei quanto meglio posso.”

“Bene, sarà anche questo un modo di studiare, e io sarò contento in ogni caso.”

Così ebbi la prima ordinazione seria. Feci la copia con buona volontà e scrupolo straordinario, tanto da guadagnarmi la simpatia di un vecchio Artista inglese, celebrato per le sue riproduzioni di quadri antichi, che figurano nelle maggiori pinacoteche. Egli si fermava spesso da me e mi insegnava alcuni piccoli segreti del mestiere, per velare o per ottenere ricami finissimi.

La copia soddisfece molto il committente, che mi retribuì con generosità, e mi volle poi spesso con sé a casa sua.

Egli aveva una grande spilla da cravatta formata da un’unica opale. Non ho mai visto una gemma così bella. In essa i colori più profondi e più violenti si alternavano ai più dolci, al più lieve cambiamento di angolo visuale, ed emanava lampi di oro, di smeraldo, di rubino e di zaffiro; era una cosa magica che mi incantava.

“Questa è tua; lo metterò nel mio testamento, perché ti ricordi sempre il vecchio Amico.”

Ma di ciò io non volevo sentir parlare; mi pareva che il venerando Amico dovesse veramente accompagnarmi nella mia carriera avvenire … invece morì poco dopo e dimenticò la clausola per la famosa opale.

Un giorno eravamo andati con una truppa di bellartini[12] a Cava Zuccherina sopra una imbarcazione lungo il fiume Brenta; e insieme a Ravello ci eravamo entusiasmati di quelle grandiose rovine e più delle capanne e della spiaggia deserta, tanto che a primavera volemmo tornarci per farne studi, come a Torcello; ma purtroppo fummo cacciati dal maltempo. Vi tornai, solo, l’anno dopo. Era un lusso che poteva concedersi anche uno studente squattrinato come me. Nell’unico albergo di Torcello, spendevo meno di una lira al giorno, tutto compreso, camera e vitto. Dall’alba a sera ero in giro con una serie di telai in traccia di nuovi tagli, di nuove colorazioni, e tutta la popolazione mi era prodiga di cortesie. Chi ospitava le tele incompiute, chi mi prestava sedia, e anche tavolo, per comodo di lavoro, e chi mi offriva frutti di mare. Anche nell’albergo, al quale io portavo così “largo” profitto, avevano cura di me come di un parente.

Un giorno, c’era festa a Burano ed io vi andai la sera in barca con l’albergatore. A Burano c’erano tutti i pescatori di Torcello.

Paronsin – chiamavano da ogni parte – el vegna a bevar un goto anche con mì! El ga piturà la mia casa, la peata, el sandalo, el ga fato la cesa e la torre!”[13]

E così un altro, e un altro, che se avessi bevuto un goto con tutti, avrebbero dovuto portarmi a casa come certi marinai inglesi.

E anche da Torcello – come da Venezia – sono partito con dolore. Ricordo ancora la buona albergatrice che diceva tristemente: “El dise sì che l’ tornerà, ma mi so che non se vederemo altro. Tutti i dise che i tornerà e anca lo pensa. Ma co i xe lontani se desmentega.”[14]

Pure non li ho mai dimenticati, come non ho mai dimenticati i buoni Amici, e i Sori Vianello, che furono sempre con me tanto gentili. Sono stato a salutarli alcuni anni dopo, in occasione della Biennale; e mi ero ripromesso di tornare almeno una volta all’anno a rivedere la città incantata, ma poi … così si perdono, nel lungo cammino della vita, tanti cari Amici – Camerati – Maestri: dimenticati mai, ma lontanati … È la vita.

Autunno 1903.

Questa volta partii solo. L’Amico Umberto Ravello, fidanzatosi con mia Sorella Olga, rimase a Vercelli per servizio militare – anno di volontariato – per liberarsi in seguito. Così il suo lavoro artistico era limitato alla scuola serale – per la quale ebbe permesso permanente – dove rimaneva sotto la direzione di mio Padre che successe a Carlo Costa, dopo la sua morte. Io, constatato che all’Accademia Albertina di Torino s’avevano alla Scuola di Pittura, sei ore al giorno di modello, mentre a Venezia erano soltanto tre, con il consiglio di Papà, optai per Torino.

Mi avviai dunque ai primi di ottobre a questo nuovo ambiente dove avrei avuti nuovi Maestri, nuovi compagni, ma uguale volontà tenace.

Mi attendeva però un’altra sgradita sorpresa: presentandomi con i miei bravi diplomi all’Albertina, mi sentii riferire dal Segretario che essi non erano validi a Torino – Accademia Regia – mentre l’Accademia di Venezia era comunale.

Inutili buon senso e proteste: i regolamenti …

Scrissi allora al Babbo, il quale mi inviò una sua missiva per un vecchio Amico, lo Scultore Casetti, il quale, essendo massone, si trovava in confidenza con tutti i pezzi grossi. Venni accolto molto cordialmente da questo Artista che subito si mise in moto per presentare il Rossarino a chi di dovere. Conobbi così vari artisti che avevano voce all’Albertina e, sopra tutti, Giacomo Grosso,



[1] In realtà i due si sposarono nel 1896, divenendo regnanti nel 1900, alla morte di Umberto I.

[2] “Loro sono i signorini Rossaro e Ravello? Venite da questa parte, bravi, prima che la folla ci schiacci; qui ho la gondola”.

[3] Ciò avvenne in realtà nel 1910: la X Biennale infatti seguì di un solo anno la IX, chiusa il 31 ottobre 1909.

[4] In verità nella Biennale del 1903 Fattori ottenne non una sala bensì una “parete” con soli tre quadri e tre incisioni (come testimonia il catalogo dell’epoca); nella Biennale del 1905, ebbe invece la concessione di poter esporre tre quadri e due sole incisioni, nel 1907 solo due pitture. La mostra personale l’ebbe alla Biennale del 1909 (anno seguente alla morte).

[5] “Ha per caso un fiammifero per accendere questa sigaretta?”

[6] “Sa, ho parlato così, per chiacchierare con lei, mi conosce?”

[7] “Ecco, bene; come lei saprà io sono un pittore sul serio. Perché ora tutti si dicono pittori, anche quelli che danno il colore alle barche… vede, mi fa tenerezza quando vedo che un giovane con buona volontà e talento si dedica a certe futilità. Perché dipinge quel fanale? Si fa il ritratto di un fanale? No, no, togli quei balconcini, ornamenti, alberelli… Metti bianco di zinco, flaisocher (colori sfumati). Sa come si dipingono i cieli? No con il blu, ma con il bianco di zinco, nero avorio, flaisocher, cobalto, ma poco, così”.

[8] “Posso?”

[9] “Ha compreso? Così si dipingono i cieli, e via tutti quei ghirigori: solo il necessario”.

[10] “Così va meglio; bene quel grigio, qui più colore; stemperi sotto il nero di avorio, così che poi si mescoli con altri colori e li renda meno forti”.

[11] “Vedete ragazzi? E poi si dice che non ho voluto mai insegnare a nessuno la mia arte!”

[12] Studenti dell’Accademia di Belle Arti

[13] “Signorino, venga a bere un bicchiere anche con me! Egli ha dipinto nei suoi quadri la mia casa, la peata (imbarcazione per trasporto merci), il sandalo (barca piccola e leggera per la caccia e la pesca), così pure la chiesa e la torre!”

[14] “Lei dice che tornerà, ma io so che non ci vedremo più. Tutti dicono che torneranno e anzi lo desiderano. Ma quando essi sono lontani si dimenticano”.


Motto di famiglia


Targa sulla porta della residenza di Rapallo